I luoghi non esistono


I luoghi non esistono


La nostra immaginazione è come un organetto di Barberia scassato.
Marcel Proust

La prima cosa che si impara da Proust, è che i luoghi non esistono. Non è necessario arrivare in fondo alle migliaia di pagine della Recherche, per accostare questa verità essenziale. «E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simili a quelli che l’accensione di un bengala o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio».
È illusorio, se non insensato, pensare che esistano davvero; che siano là, dove una mappa li indica.
Mettiamo che io arrivi sino a Iliers, a un centinaio di chilometri da Parigi. Mettiamo che la giornata sia bella, che dalla stazione prenda Avenue de la Gare e voglia approssimarmi alle rovine del castello, con tutta l’intenzione di cercare infine il sentiero dei biancospini. Che sciocchezza. Avrei sbagliato tutto. Iliers non è Combray: tutt’al più, le somiglia. E il sentiero dei biancospini – per esistere – ha bisogno di un milione di cose. Un cestino abbandonato accanto a una canna da pesca (indizio della possibile presenza di Mademoiselle Swann). La nota prolungata emessa da un uccello invisibile. E soprattutto, una luce molto precisa: «così implacabile da far desiderare di sottrarsi alla sua attenzione». I luoghi non appartengono al sempre, ma alla magia di un istante che non si ripete. Come le fotografie. Le mappe in cui davvero li troviamo, sono scritte con i battiti del cuore. «Poi tornavo davanti ai biancospini come davanti a quei capolavori che si crede di poter vedere meglio dopo aver smesso per un poco di guardarli, ma avevo un bel farmi schermo delle mani per non avere nient’altro sotto gli occhi: il sentimento che risvegliavano in me continuava ad essere oscuro e vago e cercava invano di liberarsi, di venire ad aderire ai loro fiori». Pochi scrittori come Proust hanno saputo descrivere il fascino violento, sensuale e malinconico dei luoghi che esistono nella memoria, nel sogno, nell’attesa, nel suono del loro stesso nome e non là dove sono. O non più. Pochi come Proust hanno saputo spiegare come l’autentica, più profonda natura di un luogo si componga di elementi immateriali. Il tempo atmosferico, per esempio. I personaggi della Recherche, a cominciare dal Narratore, sono meteoropatici; di continuo osservano le evoluzioni atmosferiche, se ne lasciano turbare. «Stasera nelle nuvole ci sono dei viola e degli azzurri talmente belli, non vi sembra, amico mio?». «Poteva piovere quanto voleva, ma domani, sopra la staccionata bianca di Tansonville, avrebbero ondulato numerose come al solito le piccole foglie a forma di cuore». «Così, se il tempo era incerto, fin dal mattino interrogavo insistentemente il cielo, e tenevo conto di ogni presagio». I luoghi sono fatti di aria e di luce, di vento («era così forte», talvolta, sui Champs-Élysées!). Nella loro definizione intervengono anche la musica, il rumore, la qualità di silenzio che li riempie. Lo stato d’animo con cui li attraversiamo, soprattutto; il modo in cui il paesaggio interiore risponde a quello esterno, lo interpreta e si fa interpretare. Le bellissime fotografie di Eva Tomei vanno a cercare indizi «du côté de chez Marcel», dalla parte di Marcel. Lo stupore che ci coglie mentre le osserviamo, deriva esattamente da cosa? Dal loro rifiuto a descrivere ciò che esiste. I luoghi arrivano ai nostri occhi quando sono già irreperibili nella geografia. Sono pronti a farsi ricordo, o lo sono già; sono visioni, desideri, sono quasi sogni, di un luogo. «Anche da un punto di vista semplicemente realistico – scrive Proust –, i paesi che vagheggiamo occupano in ogni momento molto più spazio, nella nostra vita, dei paesi dove in effetti ci troviamo». Queste istantanee dicono la verità di ogni vagheggiamento – verbo caro alla poesia: da “vago”, quindi mobile, instabile. Vagheggiare: vagare a lungo con gli occhi su ciò che ha attratto lo sguardo. Guardare intensamente, con amore, desiderio. Contemplare, immaginare. Eva Tomei deve avere senz’altro vagheggiato a lungo i luoghi della Recherche. Poi, ha provato a raggiungerli. Erano lì, e però non c’erano. Avevano bisogno – per esistere nello spazio fotografico – di essere evocati: nutriti con l’immaginazione, quindi trasfigurati. Il Bois de Boulogne, che Eva Tomei ci mostra, non è semplicemente quel parco parigino al limite occidentale della città: è una nostalgia di qualcosa, è forse lo spirito con cui Proust lo evoca nella mente da lontano, al chiuso della sua camera da letto. Lo spettacolo dell’autunno: «uno spettacolo che finisce così presto da non lasciare il tempo di assistervi». E certe scogliere solitarie, massicce, sulle spiagge della Normandia, in queste immagini diventano ciò che il Narratore sognava di Balbec, «nelle sere burrascose e miti di febbraio», quando il vento – «soffiandomi nel cuore, che ne tremava non meno del camino della mia stanza, il progetto di un viaggio» – alimentava il desiderio di vedere una tempesta sul mare. La sabbia, il pavé lucido di una piazza in primo piano, i lampioni che si accendono quando non è ancora buio, il riflesso del cielo su uno specchio d’acqua, un volto di bambina triste, le corse dei cavalli, la geometria enigmatica di un giardino, i tavolini di un caffè all’aperto, un tratto di Champs-Élysées, Palazzo Ducale a Venezia – tutto si confonde, si muove, vive in un’affascinante sospensione. «L’eterno volto del paese dove amerei vivere». Da notare, nelle immagini di Eva Tomei, la presenza frequentissima di qualche traccia umana: anche sfumata, anche da lontano, quasi impercettibile. Sovrastata dal paesaggio naturale, c’è magari una figurina esile, forse felice. Un ragazzino corre (il sole sta scendendo dietro la Piramide del Louvre). Sagome nel buio, o riflesse nelle vetrate di un caffè. I luoghi siamo noi che li abitiamo. Come nella Recherche, così in queste fotografie «dalla parte di Marcel», è scritta una piccola – si direbbe domestica, privata – leggenda dei luoghi. Essi cambiano, tradiscono, muoiono anche. E ci cambiano, o li tradiamo. Muoiono con noi. Però, poi possono resuscitare, magari da una tazza di tè, nei tempi imprevedibili della memoria involontaria. D’altra parte – come nota Samuel Beckett nel suo Proust – il calendario dei sentimenti è sempre un po’ sfasato rispetto a quello dei fatti. Niente è davvero in pericolo, tuttavia, finché gli organi dei sensi, finché i profondi giacimenti del «sottosuolo mentale» ci sostengono. Tutto si ritrova, prima o poi. Anche ciò che non è stato. «I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono soltanto al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggiore facilità. Essi non erano che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni».

 

Prefazione al libro fotografico, Dalla parte di Marcel, Eva Tomei, Postcart, 2010.

 

 

 

16 settembre 2015

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