L’esistenza interiore di una città. Calvino e Roma

L’esistenza interiore di una città. Calvino e Roma

 

È arrivato alla fine della sua esistenza, Calvino, quando risponde alle domande che Maria Corti gli ha posto per la rivista “Autografo”. «Credo che ci rivedremo negli Stati Uniti quest’autunno» scrive in un biglietto che accompagna l’intervista. È nella sua casa di Roccamare, sta lavorando alle Lezioni americane (sarà colpito da un ictus il 6 settembre 1985 e morirà a Siena il 19). Corti l’aveva interrogato a tutto campo sulla sua formazione intellettuale e letteraria, sul disegno d’insieme della sua produzione, sull’identità del suo linguaggio, sulle fasi del processo creativo. Una risposta ampia Calvino la dà riguardo agli «ambienti naturali e culturali» in cui è vissuto: Torino, Roma, Parigi. Parte in verità da New York, che – per sua stessa ammissione – si vede «pochissimo» nelle sue storie. Vale lo stesso per Parigi:

Il fatto è che molti dei miei racconti non si situano in alcun luogo riconoscibile. Forse per questo rispondere a questa domanda mi costa un certo sforzo: per me i processi dell’immaginazione seguono itinerari che non sempre coincidono con quelli della vita.

Se il paesaggio natale e familiare «non si può respingere o nascondere» (e Sanremo – rivela – è presente in molte delle Città invisibili), se Torino, definita «guardinga», va pensata anche «come scelta culturale», riguardo a Roma – «centro di residenza d’un gran numero di gente che scrive» – Calvino riflette in questi termini:

Sto bene solo quando non ho da pormi la domanda: «perché sto qui?», problema da cui si può prescindere di solito nelle città che hanno un tessuto culturale così ricco e complesso, una bibliografia così sterminata da scoraggiare chi fosse tentato di scriverne ancora. Per esempio, a Roma da due secoli in qua vivono scrittori d’ogni parte del mondo che non hanno nessuna ragione particolare di stare a Roma più che altrove, qualcuno di loro esploratore curioso e congeniale dello spirito della città (Gogol’, più di tutti), altri approfittando dei vantaggi di sentirsi straniero.

Non sono molte altre le occasioni in cui lo scrittore parla di Roma. Il suo indirizzo di Piazza di Campo Marzio appare in calce alle lettere dei primi anni Ottanta, ma sarebbe difficile – dai dati testuali – dedurre che si tratta del teatro di alcuni episodi di Palomar (1983). Lo conferma Chichita Calvino, anche per ciò che riguarda l’episodio del geco, in cui la città non è nominata:

Sul terrazzo, come tutte le estati, è tornato il geco. Un eccezionale punto d’osservazione permette al signor Palomar di vederlo non di schiena, come da sempre siamo abituati a vedere gechi, ramarri e lucertole, ma di pancia. Nella stanza di soggiorno di casa Palomar c’è una piccola finestra-vetrina che s’apre sul terrazzo […].

Anche la città, dunque, benché spesso innominata entra negli esperimenti di Palomar, nel suo scrutinio della superficie delle cose.

«Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, – conclude, – ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».

È dunque un’illusione, quella coltivata da signor Palomar? Lo è, quasi certamente lo è. Eppure i suoi esercizi di osservazione (esercizi di lettura, si potrebbe dire, seguendo il titolo del primo capitolo del libro) vengono compiuti con assoluta concentrazione e precisione, quasi che l’impegno – un impegno profondo, totalizzante – possa condurre, di per sé solo, alla riuscita dell’impresa.

Da qualche parte bisognerà cominciare. Palomar sceglie un’onda; la vede spuntare in lontananza, la vede «crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su sé stessa, rompersi, svanire, rifluire». Poi, sceglie un seno nudo di donna, e ancora: il riflesso del sole sull’acqua, due tartarughe in amore, il fischio attraverso cui comunicano i merli, il prato intorno casa («costituito di dicondra, loglietto e trifoglio»), la luna di pomeriggio, i pianeti visibili a occhio nudo, le stelle nel cielo d’agosto, la vegetazione sul terrazzo, un geco, l’invasione degli storni nel cielo di Roma, un negozio di formaggi, una macelleria, lo zoo di Vincennes, lo zoo di Barcellona e più nello specifico la gabbia del gorilla albino, un giardino zen, le rovine di Tula in Messico, una pantofola spaiata acquistata in un bazar orientale.

Questo ostinato guardare, questo accanito cercare i dettagli, attendere che schiudano il loro mistero, è una sfida dell’intelligenza. Dentro e oltre il senso dell’etimo: leggere dentro, a fondo; leggere dentro il già letto («Viviamo in un mondo – scrive Calvino – dove tutto è già letto prima ancora di cominciare ad esistere»). Palomar tenta di recuperare «una porzione, sia pure minima, di spazio non colonizzata dalle parole generiche e astratte» (Silvio Perrella). Quanto più è minuta la cosa osservata, tanto maggiore è la possibilità che sia detta con parole nuove, quasi ripartendo da zero, da una mente di nuovo vergine, resa pressoché tabula rasa. «Il signor Palomar ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee immediate che gli suggerisce ciò che vede».

Gli occhi di Palomar sono occhi miopi («occhio nudo per lui che è miope significa occhiali»). Per scrutare il firmamento, usa il telescopio. In questo rapporto tra vicino e lontano, tra «pathos della distanza» (Cesare Cases) e quello che si potrebbe per contrasto definire «pathos della vicinanza», si gioca molto dell’opera di Calvino. La sempre più inquieta e perfino dolorosa contemplazione dell’altro da sé – oggetto, pianta, animale, essere umano, stella o città – diventa davvero una «celebrazione del vedere», del vedere-pensare. Il mondo esiste perché lo vedo (lo penso), io esisto perché vedo (penso) il mondo, e dunque anche la città, questa antica città che «si lascia corrodere dal basso e dall’alto senza opporre più resistenza che altravolta alle invasioni dei barbari, come vi riconoscesse non l’assalto di nemici esterni ma gli impulsi più oscuri e congeniti della propria esistenza interiore».

5 novembre 2020

Si trova in: Calvino