Wet Market. La fiera della (nostra) sopravvivenza

Un mercato coperto nel cuore di una grande città. Ogni padiglione è un’epoca diversa. In questo ideale campo comune, tra superstizioni, ripensamenti e deliri di onnipotenza, gli uomini e le donne di scienza – i medici, i pionieri, i “cacciatori di microbi” (da Montagu a Jenner, da Pasteur a Koch, dal misconosciuto Tiberio a Blackwell) – incrociano i loro passi e si confondono con la massa, dando vita al grande affresco della ricerca del vaccino più sicuro, degli antibiotici più efficaci. “Wet Market” intreccia storie che raccontano trionfi e sconfitte della scienza, e in fondo del genere umano. Una fiera della (nostra) fragile sopravvivenza che ci dà la misura delle speranze e delle paure con cui quotidianamente, e a maggior ragione oggi, siamo tenuti a fare i conti.

Ascoltabile nella versione radiodramma

Lo stupore di un’ora sul palco con Franca Valeri

La prima, primissima cosa compiuta che ho scritto dopo i temi di scuola è stato un testo per il teatro. Era l’estate dei miei diciott’anni. Si trattò, per una serie di circostanze fortunate e imprevedibili di cui sarebbe lungo raccontare, di scegliere una serie di testi letterari sull’Abruzzo, e di cercare un filo drammaturgico che li tenesse insieme. Tutto pensavo fuorché di ritrovarmi su un palcoscenico a fare, per una sera, anche l’attore, o quantomeno il dicitore.
E accanto a me, sullo stesso palco, c’era Franca Valeri.

Sono quelle cose che alla lunga ci sembrano talmente irreali da mettere quasi in dubbio che ci siano capitate davvero. Ma comunque: era agosto, un palco all’aperto, in montagna, faceva freddo e indossavo una camicia bianca. Tremavo, forse soprattutto per l’emozione. L’ultimo testo che lei lesse era di Natalia Ginzburg, lo conoscono in pochi, un piccolo capolavoro di intelligenza e di dignità, si chiama “Inverno in Abruzzo”. Franca Valeri lo rese ancor più acuto e divertente con le sue pause, i suoi accenti. Il pubblico rideva! E vi assicuro che, leggendo, semmai si sorride, non si ride.

Poi arrivò al finale, che è un finale molto triste, parla della prigionia di Leone, delle torture nel carcere di Regina Coeli. La Ginzburg scrive: “Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre solo adesso lo so”.

E io ricordo come fosse ora il tono della voce. Come mutò improvvisamente, come rallentò, come si spezzò. Quando penso a ciò che non dimenticherò mai, penso anche a quella sera, alla commozione che una gigantesca attrice produsse in quel pubblico che un istante prima era riuscita a far ridere di cuore.
E l’applauso.
E il privilegio immeritato e stupefacente di stare un’ora sullo stesso palco con Franca Valeri.

Dietro le quinte. Umberto Orsini, Sold out

Dietro le quinte, l’unica volta che – da intruso – ho spiato, ho trovato buio, trambusto, un viavai rapido e concentrato. Abiti di scena, oggetti, trucco. È come mettere il naso nella cassetta degli attrezzi del prestigiatore. Dietro le quinte, quando gli attori, sul finale, stanno per tornare sul palco a prendersi gli applausi, c’è una tensione contagiosa, un’elettricità che si comunica per via muscolare anche a chi non è parte in causa. Dietro le quinte, prima dello spettacolo, un attore esperto riconosce il pubblico già dal brusio, riesce a intuire il numero degli spettatori, talvolta perfino l’umore. Così mi ha spiegato Umberto Orsini. Dietro le quinte, quando la sala è vuota – sono i giorni lunghi e incerti delle prove – l’attore prende le distanze dal personaggio che sta costruendo. “Sto costruendo un personaggio”, mi ha detto Orsini la prima volta che ci siamo visti. E mi ha parlato subito dei segni sul copione. Li archivio tutti, i copioni – così ha detto – e nei segni di matita, nel loro sovrapporsi, integrarsi, lettura dopo lettura, c’è come la radiografia di una carriera. Personaggio per personaggio. 1957, interpreta Peter in un adattamento del Diario di Anne Frank. 2019, più di sessant’anni dopo, è il costruttore Solness, protagonista di un testo meno noto e perturbante di Ibsen. Lavora per capire chi sia il vecchio Solness, che cosa può prestargli di sé stesso, quali domande lasciare aperte, quali chiudere. Solness è un costruttore edile, ha tirato su edifici per tutta la vita e – ora che sente avanzare la gioventù altrui come una minaccia – vuole sfidare i propri stessi limiti. Così Orsini rimugina. Si interroga. Capisco che a lungo cerca soluzioni nel profondo di sé, resta in silenzio finché non trova almeno un dettaglio – un modo di muovere le mani, o di calcare una parola. Arriva il momento di andare in scena, ma il personaggio non è mai dato una volta per tutte, alla centesima replica può ancora guadagnare qualcosa o privarsi di altro. Mi ha spiazzato spiegandomi che se un applauso arriva in un momento che lui ritiene sbagliato, deve fare in modo di evitarlo. Eppure gli applausi a scena aperta fanno piacere. Non importa. Ma come si evita un applauso?, gli ho chiesto. Bisogna far correre la battuta in un altro modo, bisogna che il pubblico non senta l’accento.

 

 

Sui divani bianchi della sua casa di Monteverde, a Roma – elegante, molto sobria; nessun cimelio, il materiale d’archivio chiuso con un certo disordine nei cassetti – lo spingo a teorizzare. Lui, appena rileva nelle sue stesse parole la spia di un atteggiamento pedagogico, torna indietro, fa retromarcia. Non solo per understatement, ma anche per fedeltà alle cose che gli accadono e gli sono accadute, a un mestiere che non si impara mai una volta per sempre. D’altra parte, nella sua biografia fittissima, nella sua carriera luminosa, tiene a sottolineare la casualità dell’essere diventato attore: come fosse la dimostrazione vivente di chi non era nato con la vocazione o il sacro fuoco, ma a un incrocio fortunato fra occasioni e destino ha preso il treno giusto. Certo, poi era un treno diretto a Roma – settembre 1955 – in cui per compagno di viaggio inatteso avrebbe avuto Orson Welles. E se questi non sono segni…
Siamo partiti con l’idea di un’intervista, avevo con me un quadernetto pieno di nomi – una specie di Hall of Fame su carta quadrettata. Da Laurence Olivier a Fellini, da Julie Christie a Charotte Rampling. Ho cominciato a fare le prime domande – la prima in assoluto: cosa diresti oggi che sei Orsinia Umberto detto Betollo se lo incontrassi da qualche parte -, ho registrato, preso appunti. Così si fa. E invece, all’improvviso, dal niente – come un prestigiatore – un pomeriggio ha tirato fuori quattro o cinque pagine, forse dieci, e me le ha lette. Erano qualcosa a metà fra diario e memoria, o forse una specie di colloquio con sé stesso, a cui aveva deciso di dedicarsi nei lunedì di riposo. Ecco il libro!, ho pensato. C’è già. E non c’è nemmeno bisogno di vere domande; basterà appuntarsi un nome che potrebbe sfuggire, ricordargli di non perdere quell’aneddoto, spingerlo a non lasciare indietro quel ricordo. Via via che nella mia posta elettronica arrivavano le pagine del libro che avete fra le mani, venivo come avvolto dal flusso del racconto, dal suo movimento ondivago, dal suo oscillare fra passato e presente. Fluviale, materico – un racconto scritto come per essere detto a voce, tono basso, nessun grido, semmai un’alzata di sopracciglio, un sorriso appena sornione, un lampo degli occhi al fulmicotone, lo sguardo di chi la sa lunga e si stupisce ancora. Ci siamo infine messi in moviola, e ho avuto la stessa sensazione di quando mi ha fatto vedere uno spezzone video delle prove del Solness. Avevo accanto a me non Orsini, che era là sulla scena, ma Umberto che discuteva i movimenti e le battute di Orsini e tutto l’insieme, come se si fosse sdoppiato, riuscendo a mantenere una distanza complice e critica insieme. Così pure per queste pagine: fra una recita e una prova, nel neverending tour che porta avanti da sei decenni, mi chiamava al telefono per fare le pulci a sé stesso, per domandarmi domandandosi se avesse poi tanto senso raccontare questo o quello, e se ci fosse un modo per dirlo meglio, e se ci fosse qualcosa di troppo da togliere, qualcosa di buono da aggiungere.
Il libro, ovvero il racconto, avrebbe potuto non chiudersi, proseguire, tornare ancora indietro nei nebbioni dell’infanzia novarese, nello studio di notaio dove le segretarie si accorgevano che il bel ventenne leggeva gli atti come nessuno prima, o correre avanti verso quel piccolo ma mitologico ruolo nella Dolce vita di Fellini o restare più a lungo nella cucina di Luchino Visconti, o ancora, riagganciare di nuovo i tortuosi e intensi dialoghi con Luca Ronconi. Ma conservo una bella mail in cui Umberto ragionava sull’Ibsen da portare in scena, ansioso di riscrivere la storia del costruttore Solness su di sé, così si è espresso, “con la mia carne e con i miei gesti, cercando di raccontare soprattutto una storia. La mia partenza è sempre la stessa: c’era una volta il signor Solness che…”. Lì ho capito che il libro doveva interrompersi necessariamente sul punto di andare in scena, di portare sul palco quel personaggio nuovo. Perché dietro le quinte avevamo, aveva sostato abbastanza; e d’ora in poi avrebbe potuto starci giusto il tempo di intuire dal brusio il numero e l’umore degli spettatori, giusto il tempo di aspettare la chiamata per uscire di nuovo e prendere gli applausi.
Così ho capito che non aveva senso fargli la domanda che avevo tenuto per ultima. Troppo ingenua, o superflua. Che cosa resta del teatro, qual è il segno, la traccia di quest’arte magica, millenaria che si dà solo nell’istante – il tempo della recita – e poi si perde, svanisce? Orsini non si volta indietro più del dovuto, l’attore “con le mani in tasca”, come una volta per gioco si è definito, non sta con le mani in mano. È, con tutto sé stesso, dentro la meraviglia di “veder nascere un nuovo spettacolo, dal balbettio iniziale al grido finale”. Dal balbettio iniziale al grido finale. Insistere, perfezionare, raggiungere la quasi perfezione di un gesto con la g maiuscola, fare sì che tutto ciò che accade in scena, anche l’incidente, diventi magia, aspettare che una scena, o un intero spettacolo, da “bello ma difficile” diventi magari “difficile ma commovente”. Così, il giovane notaio di Novara diventato una leggenda della scena italiana può ancora sentirsi il texano che non ha visto Venezia. Ha lavorato con Visconti e con Zeffirelli e con Ronconi, è stato diretto sul grande schermo da Lizzani, da Vancini, da Magni e da Fellini, ma sente che gli manca ancora di vedere Venezia. Non è stato né Riccardo III né Re Lear. È una posizione privilegiata, dice. Non ho ancora fatto tutto. Non c’è tempo per annoiarsi di sé stessi, c’è tempo di sorprendere e sorprendersi, invece. E seguitare, perfezionando quell’unico lunghissimo spettacolo che è la somma di tutti gli spettacoli fatti, cambiare in esso, metterci la propria vita in movimento, tutte le età, la scansione giusta dei fiati e la battuta perfetta, il sottotesto che gonfia la parola e fa risaltare il respiro delle vocali. Fino al prossimo applauso. L’entusiasmo – sorprendente, sempre miracoloso – di chi, in una sera qualunque, non si lascia scoraggiare dal freddo, dalla pioggia, dalla stanchezza, e sulla porta di casa, verso le otto di sera, prende le chiavi della macchina e dice: “Dai, sbrigati, che facciamo tardi a teatro, andiamo a vedere Orsini”.

 

Sold Out, Laterza 2019 – prefazione

Una storia quasi solo d’amore

Diario di scrittura

Prima di Google, di Wikipedia e di Yahoo Answers, a chi le facevamo le domande? L’enciclopedia Grolier che avevo in casa (qualcuno se le ricorda, le enciclopedie di carta?) forniva risposte fredde e vaghe – soprattutto su ciò che, entrando nell’adolescenza, mi stava più a cuore. Topolino e Charlie Brown qualche aiuto lo davano, ma i romanzi – stavo per scoprirlo – potevano offrire perfino di meglio. Dostoevskij non era facile, ma sul primo amore sapeva tutto; Moravia, sul sesso, ancora di più. Leggere libri era come frequentare di nascosto cattive compagnie – gente che fumava, beveva, ti rivelava segreti indicibili, rispondeva a domande che non avresti mai rivolto a nessuno, e soprattutto ne faceva a te di nuove. Strane, insolite, spiazzanti. «Ma infine, che cosa ci aveva guadagnato? Che cosa aveva riportato da questo viaggio?» chiede al lettore il narratore del Giro del mondo in ottanta giorni. Le domande fondamentali. «E presto diventerei adulto?» domanda Peter Pan alla signora Darling. O forse a sé stesso. «Possibile che anche per le persone avanti negli anni così fosse la vita – allarmante, inaspettata, sconosciuta?» si domanda Lily Briscoe verso la fine del romanzo di Virginia Woolf Al faro. Ho letto, continuo a leggere i romanzi come generatori di domande. Il più delle volte non c’è nessuna risposta. Ma il bello è proprio questo: che qualcuno chieda, anche nel buio, e che l’interrogativo resti a lampeggiare per ore; che i libri sbattano come porte, diceva Breton, di cui si è persa la chiave.

Anche osservato dalla parte di chi scrive, un romanzo può essere un modo per porre questioni che non avremmo il coraggio di porre altrove. Sono in una chiesa romana, sono entrato solo per ripararmi dal caldo, tutto è solenne, fresco, fuligginoso. Non c’è quasi nessuno. Il cigolio della massiccia porta di legno annuncia un ingresso. Mi volto: è una ragazza, è bella, indossa una maglietta bianca, ha i capelli legati. Si siede all’ultimo banco, sta lì più o meno quattro minuti, poi si fa il segno della croce e va via. Vorrei fermarla, o seguirla, chiederle qualcosa. Chi sei? Dove stai andando? Che ci facevi qui? Cos’erano di preciso quei quattro minuti? Da questa piccola visione, da questo lampo di luce dentro l’ombra di una chiesa secentesca, credo sia venuta fuori Una storia quasi solo d’amore. Volevo esporre a questo mistero un ragazzo di vent’anni, uno venuto su nel nuovo secolo, senza avere nemmeno sfiorato le categorie e le ipoteche di quello vecchio. Volevo costringerlo a trovarsi davanti una ragazza più grande, misteriosa, complicata, a esserne attratto, a sentirsi – come mai prima – impacciato, goffo, come di fronte a una cartina muta.

Salinger dice che il mondo ha bisogno di storie ragazzo-incontra-ragazza; io so solo che spesso ne ho bisogno io. E che ho provato a scriverne una, per la prima volta come se fosse l’ultima. Ho avuto in testa un incipit, all’improvviso: «Eravate bellissimi», e con quell’incipit una voce precisa. L’ho segnato in fretta su un quaderno nel cuore della notte. Era febbraio, e non prendevo sonno. Nino e Teresa li ho avuti subito davanti agli occhi, li ho visti parlare davanti a un teatro, un lunedì dopo le sei di pomeriggio. Li ho pedinati, ho atteso che tornassero a incontrarsi, lunedì dopo lunedì. E che la presenza di Teresa costringesse Nino, così poco allenato alle domande, a trovarsene di fronte una valanga. Ogni incontro fra sconosciuti somiglia a una collisione fra pianeti fuori orbita – e tutto questo fa rumore e luce. Nino, da innamorato, è tecnicamente al punto più alto della sua curiosità – e così, in quella fase, siamo tutti: disposti a rinunciare ai pregiudizi che ci fanno da armatura. Sei vegano? Non importa. Mangi carne mattina e sera? Non importa. Ti piace Casaleggio? Non fa niente. Sei scappato da casa? Hai cambiato sesso? Hai figli sparsi ai quattro angoli del pianeta? Non conta, non mi spaventa. Sei credente? Vorrei capire.

Poi magari i pregiudizi tornano, riprendono fiato, ma intanto – da innamorati – ci è sembrato di non averne bisogno, di poter capire tutto, di accettare qualunque domanda. Di essere un po’ meglio di come siamo di solito: più aperti, più liberi, meno ottusi, meno stronzi. Ma perché dura così poco? «Quasi tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire» (Harper Lee, Il buio oltre la siepe): vero, ma lo sforzo lo facciamo sempre poco, sempre meno. Basta uscire per strada, guardate. Nino e Teresa, che forse si stanno innamorando, non sentono la fatica, stabiliscono quella forma di alleanza fra estranei che ha qualcosa di prodigioso. Continuano a darsi appuntamento, come Whitman nella poesia allo Sconosciuto: «Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo, non ho dubbi / devo vedere come non perderti più».

Da questo libro è nata anche l’esperimento “Edizione straordinaria”.

Puoi scaricarla qui.

Sognare la Storia

Istruzioni per non morire in pace

Le prime immagini: un valzer ballato sopra un cumulo di macerie; cappelli di paglia che diventano cuffie chiodate; carta, cumuli di carta – banconote, lettere – che si spostano, che viaggiano. Istruzioni per non morire in pace non nasce come un testo teatrale sulla Grande Guerra. Nasce piuttosto come un’indagine su un mondo – il mondo tra il 1914 e il 1918 – che precipita dentro una catastrofe. I personaggi sono lì, sul crepaccio: chi lavora alle poste, chi in fabbrica, chi prega Dio, chi viaggia e insegue ambizioni, chi recita, chi dipinge, chi spia, chi compila piani militari, chi scrive. Di ciascuno colpisce l’inconsapevolezza, un’ignoranza che è anche nostra, di tutti: l’ignoranza del futuro. Il futuro – per Lelo, per Berto, per Fernando, per l’Ufficiale, per Josephine, per Stefan Zweig o per Lev Trotsky – è poco più di una nube minacciosa. Mentre la tempesta si prepara,
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