La miracolosa stranezza di essere vivi

La miracolosa stranezza di essere vivi

Due brani di un mio racconto che ha per protagonista J.D. Salinger

[…] Sembra che sia capitato un po’ tutto mentre battevo a macchina.
Certe mattine si sveglia e pensa questo: è capitato tutto mentre battevo a macchina. La vita, insomma. C’era la guerra, c’era da stare all’erta, alla prima piccola pausa gli altri giocavano a carte, io battevo a macchina. Jerry, mi sentivo chiamare, piantala di scrivere una buona volta. E tutto il resto: i matrimoni, i figli che nascevano. Nascevano mentre stavo battendo a macchina. Papà deve lavorare, mi trovavo a dire – ed erano già grandi, davo un altro pugno sul tavolo ed erano già andati via. La casa somigliava a un acquario asciutto. Poteva capitare di sentirsi violentati dalle lunghissime ore che precedono il mezzogiorno come da uno strumento di tortura –
una cremagliera che avrebbe potuto tendere il corpo fino a smembrarlo.
Quando accadeva questo, gli veniva voglia di uscire: scendere di corsa in strada, per riprecipitare nel movimento e nel rumore, e tornando a esserne parte sapere che niente aveva smesso di esistere, niente era nella realtà sparito, a differenza delle idee nella sua testa. Tutto era lì: più incredibilmente vivo di quanto non lo ricordasse fissando la parete ricoperta di foglietti come una teca di farfalle. Dannarsi a dare ordine, a tenere uno stupido filo tra cose, tra fatti, tra voci, quando avrebbe solo dovuto trascrivere, così come gli arrivavano all’orecchio, le parole di una vecchia sottile come un fuso, che si piega verso il pensionato grosso seduto sulla panchina: vegliate, ha detto il Signore, perché non sapete né il giorno e né l’ora. Il pensionato la osserva in silenzio, poi dice: la religione è la rovina del mondo. La vecchia sottile chiede perché, quasi in allarme. Il pensionato non le risponde, gira la testa dall’altra parte, guarda lontano. Poi bastava un passo e c’era il camion del pesce: avrebbe spinto l’immaginazione fin dove era possibile, fino al piatto con il merluzzo già cucinato dietro una qualunque di queste finestre, fino all’odore che si è sparso in cucina mentre comincia il notiziario della sera. E delle felpe ancora nel cellophane, le felpe a buon prezzo mescolate alla biancheria nelle gabbie di ferro del mercato, anche delle felpe si sarebbe domandato il destino, fino alla stanza di una ragazza che rabbrividisce e accosta il naso al tessuto scadente – il profumo di chi l’ha stretta un’ora fa non è ancora svanito.[…]

 

Devo ricordarmi di raccontarti un po’ di cose, quando ci vedremo. Dell’incendio del ’92 ti ho raccontato per bene? I manoscritti si sono salvati, i miei due levrieri no. Li ho chiamati nel bosco, ho fischiato per tutta la notte, ma niente. Speravo che fossero scappati in tempo. Ti risparmierò invece le grane che continuano a piovermi addosso dai soliti seccatori, biografi, giornalisti. Ho bloccato un libro su di me, ho detto all’autore che mi era difficile tollerare l’ennesima intrusione nella mia vita privata, che erano ormai talmente numerose da non poterle sopportare più. Non nell’arco di una vita, almeno. Mi sono trovato davanti a un giudice che mi chiedeva cose ridicole, tipo se avessi scritto ancora qualcosa negli ultimi vent’anni, cose che non fossero state pubblicate, gli ho risposto: naturalmente sì, e lui insisteva: può descrivermele? Sarebbe difficile, gli ho detto. Ma lui insisteva, domandava se fossero romanzi, racconti, o cosa, allora ho perso la pazienza e gli ho detto: senta, io comincio a scrivere e vedo quello che succede, tutto qui. L’unica descrizione che possa darle è questa: opere di narrativa. Pronte per la pubblicazione?, ha chiesto. Non ho risposto più, ne avevo abbastanza.
Cosa vuol dire pronte-per-la-pubblicazione, Donald? Ma che modo è di ragionare? Cosa c’entra scrivere con la pubblicazione? Trovare il modo di scrivere senza preoccuparsi della pubblicazione, che è solo una stupida seccatura, questo sarebbe il meglio per uno scrittore. Eviteresti che qualcuno venga a chiederti di parlare del tuo mestiere. Ma perché ai postini non lo chiede nessuno? E agli impiegati del catasto? Quando gli chiedono di parlare del proprio mestiere, uno scrittore dovrebbe alzarsi in piedi e limitarsi a dire a voce alta i nomi degli scrittori che ama. Kafka, Flaubert, Tolstoj, Cechov, Dostoevskij, Proust, Rilke, Keats. Nient’altro. Emily Brontè, Henry James. Rimbaud. Nessun vivente, non credo sia giusto.
A volte mi capita di svegliarmi di notte – capita anche a te, Donald? – e mi aggiro come un fantasma nel mio studio. Le cartelle cliniche ormai sono più numerose delle recensioni degli anni d’oro. Non che me ne importasse granché. Gente che pattinava sull’invidia, perlopiù. In certi istanti ho come la sensazione di poter capire la vergogna dei miei figli all’idea di avere un padre scrittore. E continuo a pensare con orrore ai dottorandi che un giorno metteranno mano nelle mie carte, finché non mi addormento sulla poltrona. Mi sveglio quando è l’alba. Mi piace pensare intensamente alle città del mondo, al rumore, alla luce, al movimento, allo scintillio, alla stranezza di tutta questa gente che vive e si ignora e sembra avere una destinazione precisa. E penso, in tutto questo non c’è traccia di me. O forse sì, tra le mani di un ragazzino con la musica nelle orecchie, in un vagone della metropolitana, che legge quel mio proverbiale romanzo, senza il desiderio di cercarmi, senza neanche sapere se sono morto o no. […]

 

Da La miracolosa stranezza di essere vivi, Paolo Di Paolo, Feltrinelli Zoom, 2012.

 

 

 

5 dicembre 2015

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