Il giorno in cui la letteratura morì

 

il giorno in cui la letteratura morì

 

Uno

 

«Scusi», dice come sul punto di alzarsi, «non sono d’accordo, non so nemmeno se sono previste domande, e la mia a dire il vero non è una domanda, è un’osservazione».
[quando è successo che le domande si sono trasformate in osservazioni?]
Nessuno gli dice di rinunciare ed è ovvio che lui non rinuncia. Rivolto al conferenziere di turno, dice che non è persuaso fino in fondo dalla tesi appena esposta. E cioè che lo Scrittore di cui si sta parlando abbia vissuto una sua stagione di sfiducia nelle parole, nel senso stesso delle parole, del fare letteratura.
«Sa perché glielo dico?». «No» scuote la testa il conferenziere, «no». «Glielo dico perché penso che uno Scrittore, se tale è, vive di una inesausta fiducia nel suo gesto, nella sua – vorrei chiamarla così, anche se so che è una parola quasi desueta – vocazione». Espone il suo teorema con la sicurezza esibita di chi esclude di poter essere smentito. E infatti nessuno lo smentisce: il conferenziere non ha voglia, è stanco, è sempre così (cerca la parola) svuotato alla fine di una conferenza, di un discorso pubblico, finisce per deprimersi, trascinandosi dopo cena in una camera d’albergo che è accogliente quanto ostile; no, ostile no, se è quattro stelle non lo è
[non sempre ai conferenzieri sono garantite le quattro stelle]
semmai indifferente. Indifferente come diventa lui a sé stesso quando si sciacqua il viso, sente gorgogliare la pipì, accende senza ottimismo la televisione, e si salva da una insostenibile apatia addormentandosi davanti a una trasmissione televisiva qualunque, o masturbandosi.
Che cosa resta del fiato che abbiamo speso per mettere in sequenza sillabe sostantivi verbi congiunzioni preposizioni a voce alta? Respiro e stille di saliva sono già disperse, svanite col pulviscolo della sala conferenze ormai chiusa, ormai al buio.
Non vale la pena farsi la domanda, nemmeno quando il conferenziere dovesse mettere in discussione la sequenza di gesti, di atti, che ha preceduto il torpore in cui finalmente molla gli argini della coscienza e sprofonda.
L’arrivo in stazione, il treno, il tempo in treno, una ragazza cerca di superare i suoi complessi parlando brusca, smargiassa a un suo coetaneo, poi per blandirlo gli chiede se vuole una galletta yogurt-e-fragola, lui fa no con la testa, la voce registrata nomina la prossima fermata. È un pomeriggio freddo e umido, sbarcando pensa che per scaldarsi ci vuole un caffè, appena un po’ lungo, e sa che se ne pentirà sentendo bruciare lo stomaco dopo neanche mezzora, nel tragitto in macchina accanto a un guidatore ragazzo che gli dice di collaborare con l’Organizzazione, e ogni tanto smessaggia tenendo una mano sola sul volante, eccetera
[non è facile chiedere a uno sconosciuto di guidare con più attenzione, con prudenza]
Comunque resta l’amaro in bocca, questo è il fatto, tanto più se la cena non è stata convincente, e come un campanello fastidioso la mattina dopo continua a suonare nella testa l’obiezione, la non-domanda, l’osservazione del signore che ha detto scusi come fosse sul punto di alzarsi.

da Il giorno in cui la letteratura morì, Tetra

 

 

23 maggio 2023

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