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Con Aldo Busi

Per capire fino in fondo il titolo del suo ultimo libro, Vacche amiche, bisogna arrivare a pagina 116. Prima e dopo, come quando lo senti parlare, una valanga di storie, pezzi di vite altrui, intuizioni, sentimenti messi a nudo, la solitudine che emana dal porno e una telefonata immaginaria (per ora) con Papa Francesco, ritratti memorabili di donne, una madre nata nel ’14, “scampata a due guerre e perciò pochissimo esigente, e pretenziosa e vittimista mai”, incontri, scontri, Proust e un bellissimo elenco di gesti contadini, parecchie verità che nessun altro pronuncia – tutto nella forma di un romanzo, il romanzo di una voce, carico di vita da stordire, come la bellezza dell’alba nella pagina finale. Anche quando parla, seduto al tavolo di una trattoria romana, Aldo Busi lo fa con la stessa lingua dei suoi libri. Tra le più belle che siano state messe su carta, in Italia, tra ventesimo e ventunesimo secolo. Ma chi lo ferma per strada nel giorno dell’eclissi solare – “maestro!”, “professore!” – forse non lo sa, e gli nomina solo le apparizioni in tv. Lui preferisce di sicuro questo, a chi lo snobba per avere partecipato all’Isola dei Famosi.

“In tanti anni di viaggi in treno, in aereo, non ho mai incontrato nessuno con un mio libro in mano”. Non gli dispiace troppo, o così dice. “Sa, che quanto ho scritto venga letto o no, ora o dopo, s’è fatto troppo tardi perché mi riguardi ancora. Se dopo i primi romanzi mi avessero dato il Nobel, avrei detto: che bravi. Me ne dessero dieci oggi, cosa mi cambierebbe? Come prendere tre camomille”. In Vacche amiche confessa anche di essersi stancato di viaggiare. Eppure ha girato, e raccontato, mezzo mondo. “Se finisco per spostarmi, una volta arrivato non esco dalla stanza d’albergo. Per il resto, sto a casa. Quella smania di correre qua e là, di cambiare sedia di continuo, si è spenta. Adesso voglio stare seduto, ingrassare, diventare come Marlon Brando”.

Troppa vita alle spalle? “Ma no, il contrario. Una bellissima puttana creola, nel romanzo, me lo dice chiaro e tondo: tu ti ritieni tanto intelligente, ma se non hai capito che quando è il momento di godersi la vita, bisogna godersela animalescamente, vuol dire che tanto intelligente non sei”. Ma come? E tutti quei viaggi anche rischiosi, affamati di vita… “E di sesso, sì. Be’, sapesse quante volte ho scopato solo per poterne scrivere! Questa è stata la mia dannazione, il mio azzardo. Ogni mia esperienza l’ho fatta consapevole di quale fosse il fine, compreso il fine del piacere. Il piacere del testo!”.

Uno scrittore, dice, è un ostaggio di se stesso: “Non ho scienze innate né verità in tasca, non sono religioso, superstizioso, non ho una voce oltre la mia, sono io e basta, sono poco, devo ampliarmi, forzarmi, andare di gomito. L’auto-violenza che mi ha portato a essere scrittore l’ho pagata fingendo di vivere. Se ho avuto un uovo posso dividerlo a metà, non trasformarlo in due. Una parvenza di guscio sì, la metti dappertutto, e per anni ho cercato di metterlo soltanto nella vita, ma non interessava a nessuno, era un uovo Fabergé. Quando ho detto di essere stato respinto, non esageravo, e li capivo, ero troppo psichico, non mi accontentavo mai, da un punto di vista mentale soprattutto”. Il suo romanzo comincia dalla solitudine. Ha qualcosa di maestoso, e forse anche di sofferto. Gli domando se è così: “Mi dispiace per gli altri più che per me: fin tanto che ci sono stato, ero braccia aperte, ma gli altri avevano paura, e adesso io sono troppo vecchio. Ho detto una cosa anni fa, l’unico dogma che ho fatto mio: meglio mai che tardi”.

Dice che non fa sesso dal 2004. E che gli capita di lasciare spento il cellulare per due giorni e di non farci caso. Che vita è?, domando. Si arrabbia. “Se non è vita, è il finis vitae: bellissimo. Esco, mi fumo una sigaretta, rientro, mi invento una salsa, che poi non mangio, però la faccio con tutti i crismi, oppure prendo una faraona e la riempio al modo rinascimentale, con tutte le spezie possibili, venticinque elementi, perfino il cacao, cucio, invito due morosi a pranzo che mangiano e basta, senza dire una parola, non ho nessuna fregola. È una cosa che non si può dire, te la fanno pagare se la dici: sarei pronto in qualsiasi istante a morire, preferisco morire piuttosto che andare a fare una passeggiata a Villa Borghese ora che c’è il sole. Posso dirlo? Corrisponde a quello che sento. Punto e basta. Non ho altro da aggiungere, non posso fornire il testo e l’interpretazione del testo, le pare?”. Confessa di sfuggita di essere passato da un pieno troppo pieno a un vuoto troppo vuoto, dal rischio di annegamento a quello di assideramento sulla spiaggia. “Si tratta di estremi, ma gli estremi non te li scegli. E comunque non ho nostalgie, non sono triste”. L’energia mentale, in effetti, è impressionante. “Nessuna leggenda vivente o morente può fare pari e patta con una vita così intelligente e sanguigna e volitiva e così poco vissuta, però, e questo mi sconcerta più di tutto, senza rimpianti”. Continua a scrivere, ovviamente. “Sì, ma sempre meno. Quando uno si è piegato a dar voce e corpo agli altri, a tutti i possibili altri, alla fine cosa gli resta? Di dar voce e corpo a se stessi. E di tenere per sé quel poco di sangue che rimane: non me lo godrò, non importa, ma che liberazione!”. Perché il sottotitolo è “autobiografia non autorizzata”? “Uno pensa che per fare autobiografia debba avere alle spalle almeno uno stupro, un omicidio, una guerra, ma no, basta un qualunque dettaglio sordido, sordido e senza particolari peccati, perché sordida è l’umanità. Bisogna però che tutto sia espresso con la dovuta grazia estetica. Ho sempre trovato interessanti gli altri, perché non fingere, per una volta, un me che trovi davvero interessante me stesso?”

Vanity Fair, 3 aprile 2015