Contemplazione dell’Altro

Un percorso nella narrativa di Italo Calvino

La città (invisibile) di Tecla è un cantiere: «le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno», «gru che tirano su altre gru», scale, tralicci. Chi vi arriva, domanda agli abitanti che senso abbia quel costruire: «qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto?». « – Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono. Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono».
La vita creativa di uno scrittore come Italo Calvino assomiglia alla città di Tecla. È appunto una città-cantiere, la cui geometria in movimento lascia segni, tracce, graffi sopra carte fitte di schemi. Su scrivanie diverse, prendevano forma più progetti paralleli: spesso all’apparenza contraddittori, spesso non sincronizzati tra loro.
Calvino scrittore-medico, con il camice e le pinzette, insofferente all’approssimazione e alla casualità, l’ha definito il critico Cesare Garboli; ma forse, più ancora, si direbbe scrittore-architetto. In un’intervista dei primi anni Ottanta, confessava di essere quasi ossessionato dagli schemi e spiegava come, per ogni libro, fosse stato decisivo il lavorio tenace sulla struttura: in modo che essa fosse sempre «rigorosa», «precisa», «articolata».

Bisognava aspettare che la notte scendesse sul cantiere, per vedere «il progetto». Per scoprire finalmente che il progetto era il cantiere stesso – con gli steccati di tavole, le armature metalliche, i ponti di legno, i tralicci, le gru, le travi. Come l’infinita cattedrale di Gaudì.

C’è una lettera – illuminante in proposito – che Calvino inviò a Goffredo Fofi un anno prima di morire. Aveva letto un saggio dedicatogli da Mario Barenghi (Italo Calvino, le linee e i margini, il Mulino) e così commentava: «Da giovane io sentivo il bisogno di fare continuamente delle enunciazioni programmatiche generali, che non corrispondevano (o corrispondevano solo in parte) a quello che riuscivo a realizzare in pratica. Ora io credo che la poetica d’un autore si deve ricavare a posteriori dalle sue opere, cioè da quello che è riuscito veramente a fare».

La varietà e mutevolezza dell’opera di Calvino, del suo «fare», è stata costantemente, dalla critica, ridotta a una serie di fasi. Il primo, il secondo, il terzo, il quarto Calvino: da cui estrarre, assieme a formule spesso granitiche, gli aspetti più o meno in sintonia con il proprio gusto. Ma in realtà c’è un filo, o un gomitolo di fili – più o meno visibili, più o meno intricati – a tenere insieme esperimenti tanto diversi e lontani, e tuttavia appartenenti alla stessa costellazione.

È il 1958, Calvino ha trentacinque anni. Nel racconto L’avventura di un poeta, il signor Usnelli vive una giornata goffa e sensuale con tale Delia. «Adesso stava all’erta, come se ogni grado di perfezione che la natura intorno a loro raggiungeva (…), non facesse che precedere un altro grado più alto, e così via, fino al punto in cui l’invisibile linea dell’orizzonte si sarebbe aperta come un’ostrica svelando tutt’a un tratto un pianeta diverso o una nuova parola». Usnelli è un parente stretto dello «scrutatore» Amerigo (La giornata d’uno scrutatore, 1963: e scrutatore non solo per ragioni elettorali), così come Amerigo è parente stretto del signor Palomar di vent’anni dopo. E il Marco Polo delle Città invisibili? E Marcovaldo? E il barone Cosimo Piovasco di Rondò che, dopo avere rifiutato un piatto di lumache, se ne va a vivere sugli alberi? La «minima ma invalicabile distanza» che Cosimo mantiene tra sé e il mondo, è necessaria a qualunque «scrutatore». Gli serve per stare lì, a un passo dalle cose; per guardarle da sopra o da lontano. Per aspettare che, a forza di contemplarle, infine dischiudano la loro verità, il loro segreto. È il «pathos della distanza» di cui ha parlato Cesare Cases.

La storia delle storie di Calvino è fatta di occhi. Mobili, veloci. Occhi-telescopio, a un tempo incantati e in allarme. Si specchiano nell’universo mentre lo specchiano; si guardano guardare. Cosa sono le cose senza di noi, senza i nostri occhi? Esistono ancora, esistono davvero? E lo sguardo dei morti, com’è fatto? Anche la morte è una forma di sguardo? Gli occhi di Pin, di Cosimo, di Usnelli, di Amerigo, di Qfwfq, di Palomar cercano, irrequieti, queste risposte: in una visione-contemplazione ininterrotta, che è come una staffetta da fermi.

*

La parola «contemplazione» appare in Palomar (1983), quando il personaggio, in una sera estiva, sta facendo la sua nuotata giornaliera. Meglio, il morto a galla.

Il suo sguardo rovesciato ora contempla le nuvole vaganti e le colline nuvolose di boschi. Anche il suo io è rovesciato negli elementi: il fuoco celeste, l’aria in corsa, l’acqua culla e la terra sostegno. Sarebbe questa la natura?

Palomar è un personaggio-sguardo perennemente impegnato nel confronto con le cose, nella pretesa che infine esse svelino il loro segreto. Prima che questo possa accadere, gli occhi di Palomar dovranno esaurire lo scrutinio della superficie delle cose.

«Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, – conclude, – ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».

È dunque un’illusione, quella coltivata da signor Palomar? Lo è, quasi certamente lo è. Eppure i suoi esercizi di osservazione (esercizi di lettura, si potrebbe dire, seguendo il titolo del primo capitolo del libro) vengono compiuti con assoluta concentrazione e precisione, quasi che l’impegno – un impegno profondo, totalizzante – possa condurre, di per sé solo, alla riuscita dell’impresa.

Da qualche parte bisognerà cominciare. Palomar sceglie un’onda; la vede spuntare in lontananza, la vede «crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su sé stessa, rompersi, svanire, rifluire». Poi, sceglie un seno nudo di donna, e ancora: il riflesso del sole sull’acqua, due tartarughe in amore, il fischio attraverso cui comunicano i merli, il prato intorno casa («costituito di dicondra, loglietto e trifoglio»), la luna di pomeriggio, i pianeti visibili a occhio nudo, le stelle nel cielo d’agosto, la vegetazione sul terrazzo, un geco, l’invasione degli storni nel cielo di Roma, un negozio di formaggi, una macelleria, lo zoo di Vincennes, lo zoo di Barcellona e più nello specifico la gabbia del gorilla albino, un giardino zen, le rovine di Tula in Messico, una pantofola spaiata acquistata in un bazar orientale.

Questo ostinato guardare, questo accanito cercare i dettagli, attendere che schiudano il loro mistero, è una sfida dell’intelligenza. Dentro e oltre il senso dell’etimo: leggere dentro, a fondo; leggere dentro il già letto («Viviamo in un mondo – scrive Calvino – dove tutto è già letto prima ancora di cominciare ad esistere»). Palomar tenta di recuperare «una porzione, sia pure minima, di spazio non colonizzata dalle parole generiche e astratte» (Silvio Perrella). Quanto più è minuta la cosa osservata, tanto maggiore è la possibilità che sia detta con parole nuove, quasi ripartendo da zero, da una mente di nuovo vergine, resa pressoché tabula rasa. «Il signor Palomar ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee immediate che gli suggerisce ciò che vede».

Gli occhi di Palomar sono occhi miopi («occhio nudo per lui che è miope significa occhiali»). Per scrutare il firmamento, usa il telescopio. In questo rapporto tra vicino e lontano, tra «pathos della distanza» (Cesare Cases) e quello che si potrebbe per contrasto definire «pathos della vicinanza», si gioca molto dell’opera di Calvino. La sempre più inquieta e perfino dolorosa contemplazione dell’altro da sé – oggetto, pianta, animale, essere umano, stella o città – diventa davvero una «celebrazione del vedere», del vedere-pensare: il mondo esiste perché lo vedo (lo penso), io esisto perché vedo (penso) il mondo: «Il pensiero e il mondo sono lo stesso, ma anche Palomar è quel pensiero, anche Palomar è il mondo ed è necessario al mondo» (Alessandro Carrera).

Il signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita, e quello ben più oscuro di dopo la sua morte; cerca di immaginare il mondo prima degli occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo che domani per catastrofe o lenta corrosione resti cieco. Che cosa avviene (avvenne, avverrà) mai in quel mondo?

*

Trent’anni prima di Palomar, nella Giornata d’uno scrutatore (il romanzo è del 1963, ma ambientato nel 1953) Amerigo Ormea, nel corso di una giornata elettorale al Cottolengo di Torino, istituto in cui sono ricoverati minorati fisici e mentali, compie il suo personale, doloroso esercizio di lettura/contemplazione. Come spiega lo stesso Calvino, i temi essenziali del libro sono quelli dell’«infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione», ma tutto questo passa attraverso il filtro della vista, degli occhi.

Oggi, poi, le ore passate al «Cottolengo» gli pesavano addosso, tutta quell’India di gente nata all’infelicità, quella muta domanda o accusa a tutti quelli che procreano. Gli pareva che quella vista, quella coscienza non sarebbero state senza conseguenze […].

«Quella vista, quella coscienza». Amerigo vive il suo ruolo di scrutatore non solo in termini elettorali: guarda con attenzione, scruta appunto, indaga una realtà ignota che solo adesso gli si rivela. Se si setacciasse il testo alla ricerca di espressioni che riguardano gli occhi, il risultato sarebbe eclatante. Tutto sembra giocato sulla visibilità:

L’occhio, uscendo dall’ombra della scala, provava un senso d’abbagliamento, doloroso, che forse era soltanto una difesa, quasi un rifiuto di percepire in mezzo al bianco d’ogni monte di lenzuola e guanciali la forma di colore umano che ne affiorava; oppure una prima traduzione, dall’udito nella vista, dell’impressione d’un grido acuto, animale, continuo […].

Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. […] Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato.

Anche la Madre sorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al «Cottolengo» per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio.

La lezione e la verità di questo libro sono racchiuse in gran parte qui: nella riflessione su questo sguardo che non vuole perdere l’altro, riconoscendolo; e sullo sguardo che desidera essere riconosciuto, che esiste se e quando riconosciuto. Uno degli episodi centrali della Giornata lo chiarisce al massimo grado. Un politico, seguito dall’immancabile codazzo, fa la sua visita al Cottolengo. Si informa della percentuale dei votanti, scherza con qualche elettore, cerca la madre superiora e le parla «da vecchio amico». Amerigo si accorge che a osservare, non visto, l’onorevole c’è un nano:

Gli occhi del nano erano fissi sull’onorevole, e contro il vetro della finestra s’alzarono delle dita corte corte, la grinzosa palma d’una piccola mano, che batté contro il vetro, batté due volte, come per chiamarlo. Cosa aveva da comunicargli? si domandò Amerigo. Cosa pensava, il nano, di quell’autorevole personaggio? Cosa pensava – si disse – di noi, di tutti noi?

L’onorevole si voltò, il suo sguardo girò sulla finestra, si fermò appena sul nano, poi passò via, distante. Amerigo pensò: «Si è accorto che è uno che non può votare». E pensò: «Non lo vede nemmeno, non lo degna d’uno sguardo».

 

5 agosto 2015

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