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Con Alessandro Baricco e Dave Eggers

«Neanche l’ha sfiorato l’idea che fare lo scrittore potesse bastare». Così ha detto una volta Alessandro Baricco parlando di Dave Eggers, ma forse ragionava anche di sé. I due hanno parecchi tratti in comune. Il primo esordì nel ’91, con Castelli di rabbia, a trentatré anni, «quando si è capaci di vertiginosa libertà-indipendenza-follia»; il secondo nel 2000, a trenta precisi, con L’opera struggente di un formidabile genio, e dell’esordiente che è stato dice di ricordare soprattutto il troppo gel che metteva nei capelli, indisciplinati come la sua prosa. Hanno scritto una decina di romanzi ciascuno, ma non si sono limitati a quello. Editor, imprenditori, “didatti”, performer. Hanno fondato scuole di scrittura, la Holden e 826 Valencia. Eggers si è inventato la rivista-casa editrice “McSweeney’s”, sceneggia film, crea una playlist musicale anti-Trump lunga quattro anni. Baricco continua a praticare la sua “narrazione del sapere”, dagli anni della tv alle più recenti “Mantova Lectures” in teatro. Accade spesso agli scrittori di prestarsi a diverse esperienze, spesso anche per ragioni alimentari. Nel loro caso corrisponde – direbbe l’uno – a una precisa «idea di mondo»; alla «fame che abbiamo» – direbbe l’altro – di capire, di stare davvero nel presente.

È davvero possibile, oggi, essere “solo” uno scrittore?

BARICCO: «Il mio istinto mi ha portato da subito a fare anche altro. Nel tempo, mi è parso chiaro che non ero un caso isolato; ora è abbastanza evidente che il profilo dello scrittore “puro” continuerà a esserci, ma forse circoscritto a pochi. Per il resto, si imporrà questa figura di autore che fa molte cose, o forse comunque una sola: un’opera che si compone di tanti gesti diversi».

EGGERS: «Essere uno scrittore è già parecchio. Ma a volte si presentano idee che vanno attuate fuori dalla pagina, su un piano concreto. Altre volte si presenta un problema del mondo reale, e uno scrittore, o qualunque umano, potrebbe essere in grado di vedere una soluzione possibile».

Che rapporto c’è fra i diversi piani del vostro lavoro?

EGGERS: «Accade che ci sia qualche sovrapposizione, ma la mia scrittura è molto distinta dal resto del lavoro. Quando scrivo, sono solo nel mio garage, e davvero sconnesso da tutto il resto. Il mio ultimo libro, che racconta una dentista in Alaska, non aveva legami diretti con nessun aspetto della mia vita. Be’, un legame l’ho visto dopo: quando sono andato dal dentista e ha trovato un mondo di problemi nella mia bocca».

BARICCO: «Posso dire che fra le cose che faccio, scrivere libri resta un gesto diverso, alto, faticoso, forse in assoluto il più complesso».

In ogni caso, avete in comune una certa inclinazione a sperimentare.

BARICCO: «Mettiamola così: né io né lui abbiamo mai fatto la tessera del club a cui apparteniamo, “quelli che scrivono libri”. Tutte le volte che c’era la cena sociale non siamo andati. Dove eravamo? Io magari a spiare qualcosa, a scegliere le maniglie per le porte della mia scuola; lui in Alaska con i suoi figli a vedere come si vive senza computer, o a decidere un font. Hai presente quello che nella foto di gruppo non viene mai, perché non c’era o è nascosto da qualcun altro? Ecco. Mi pare che entrambi, a proposito di collisioni, siamo impegnati in una somma di micro-collisioni quotidiane con il nostro stesso mondo».

EGGERS: «Ogni percorso è stato davvero inaspettato, non pianificato. Ho rinunciato da molto alla convinzione che la vita si sottometta a qualsiasi disegno predefinito. E quando ti apri ad “affluenti” casuali, tutto diventa di gran lunga più piacevole».

Che cosa significa per voi lavorare nel campo della formazione? La madre di Eggers era un’insegnante.

EGGERS: «Mia madre era una professoressa, sì, e amava il suo lavoro. Quando stai per molti anni su un libro, arrivano momenti in cui ti senti inutile. Ma quando lavori con uno studente, scopri qualcosa sempre, ogni giorno è una rivelazione. Gli esseri umani aspirano a essere necessari, utili, e nel campo dell’educazione un adulto si sente cruciale. Gli insegnanti lo sanno, e tutti gli altri possono, ogni tanto, averne un assaggio».

BARICCO: «Per me quella “pedagogica” è una linea di ricerca. Non saprei definirla bene nemmeno adesso, e divulgazione non mi sembra esatto. È più probabile che si tratti di una “narrazione del sapere”. Dagli anni in tv al lavoro sull’Iliade, alle “Lectures”, tutto va nella stessa direzione. Devo solo trovargli un nome. Prima o poi lo troverò. Quanto alle nostre scuole, il punto di contatto, nella diversità, mi pare questo: tutti e due crediamo che l’esercizio della scrittura renda più atti a difendersi nel presente».

Scrivere è davvero essenziale anche per chi non ne farà mai un mestiere?

EGGERS: «È assolutamente centrale. Per gli studenti a basso reddito che seguiamo nella nostra scuola, l’abilità nella scrittura può significare l’ammissione a un’università di livello, passare da scarse aspettative a luoghi di opportunità. E comunicare con efficacia è un’abilità che chiunque può acquisire con un lavoro assiduo. Negli Stati Uniti abbiamo avuto otto anni dignitosi con un presidente venuto in primo piano attraverso le sue capacità di scrittura; Obama ha scritto il proprio destino con il suo primo libro, Dreams of My Father. E questo è stato un grande esempio per gli studenti, specialmente per quelli di colore. Ora l’uomo alla Casa Bianca è l’opposto, uno che non legge libri e non sa sillabare la parola “presidente”. È un esempio devastante per cento milioni di giovani».

BARICCO: «A che serve scrivere se non si è scrittori? A trovare una gerarchia nel caos, per esempio. La più semplice delle frasi è un sistema gerarchico. E così la costruzione di un racconto esercita la capacità di organizzare un’enorme quantità di materiale. Prendi un manager: si sveglia la mattina e deve risolvere problemi. Se riesce a farlo è soprattutto perché sa metterli in ordine, rapidamente. Un’altra cosa che oggi serve in qualunque campo, è la duttilità: saper lavorare simultaneamente su tavoli diversi. Quando scrivi una storia impari, mettiamo, a costruire un dialogo fra quattro persone: un vecchio, un bambino, uno che balbetta e un analfabeta. Ecco, quando in una riunione hai davanti a te l’americano proprietario dell’azienda dove non aveva ancora messo piede, il tuo vecchio capo che non capisce più tanto, una rampante ragazza di ventott’anni e devi metterli in relazione… be’ se hai scritto un racconto come si deve, metà del lavoro l’hai già fatta».

La Repubblica, 14 luglio 2017