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Con Enrique Vila-Matas

«Ho scritto il mio primo libro senza pensare alla pubblicazione. Ci lavorai in Nord Africa, cercando di riempire in modo positivo il tempo che mi faceva perdere l’esercito spagnolo. Al ritorno a Barcellona, un’amica editrice, Beatriz de Moura, si mostrò curiosa di leggerlo,
le piacque e decise di pubblicarlo.
Non fu perciò complicato esordire. Se il libro ebbe qualche successo? Nessuno. Tutti pensavano che avrei continuato facendo cinema, l’arte che più mi attraeva. Ma poi andai a Parigi e tutto cambiò».

Enrique Vila-Matas, uno dei più famosi e apprezzati scrittori spagnoli contemporanei, ricorda divertito quell’inizio in panni di soldato, servizio militare obbligatorio nelle colonie: era il 1973, lui aveva venticinque anni. Scrisse una sola lunghissima frase senza interruzioni; il titolo dell’esperimento era Mujer en el espejo contemplando el paisaje (Donna allo specchio che contempla il paesaggio). Lo lesse lo scrittore argentino Héctor Bianciotti, disse al giovane Enrique: «È un esercizio di stile». L’interessato non smentisce, confessa anzi di avere sempre un po’ occultato questo primo passo del suo cammino letterario: «Mi ci volle qualche anno a scrivere La asesina ilustrada (in Italia è uscito nel 2004 da Voland con il titolo L’assassina illustrata, ndr); ne ho sempre parlato come del mio primo libro, in realtà era il secondo. Ma fu quello ad annunciarmi un futuro come scrittore».

Nel romanzo più recente, Kassel non invita alla logica (Feltrinelli), Vila-Matas scrive che «non si arriva mai per caso alla letteratura». Gli domando come sia andata nel suo caso: «All’inizio – racconta – ho opposto resistenza a quello che poi sarebbe stato il mio destino. Negli anni Sessanta studiavo da avvocato e dirigevo cortometraggi con Dalí a Cadaqués. Ma notavo questo: più cercavo di allontanarmi dalla letteratura, più in realtà mi avvicinavo. Nell’agosto dell’anno in cui Marilyn morì, mentre camminavo per Cadaqués sono inciampato e letteralmente caduto su una persona che, invece di arrabbiarsi, mi ha offerto il primo lavoro della mia vita. Questo lavoro – giornalistico – finì per condurmi alla letteratura. Ora, alla mia età, non so più se ho vie di fuga». Sa benissimo di non averne: Vila-Matas è più che uno scrittore, è un personaggio letterario lui stesso; di libro in libro ha dato forma a un paesaggio particolarissimo, di cui è protagonista insieme a una folla di altri scrittori, che evoca, insegue, pedina, a volte inventa. In Bartleby e compagnia, per esempio, parla di quelli che scelgono di non scrivere, di tacere, quelli che – come lo scrivano di Melville – «preferiscono di no». Qualunque esordio ha a che fare con un silenzio da rompere, da “continuare” a rompere. Smettere di scrivere è più facile che continuare? Vila-Matas, studente di Giurisprudenza, partì all’improvviso per Parigi per «studiare da Hemingway». Visse in una mansarda sudicia che gli affittò Marguerite Duras, così racconta. Si vestiva da esistenzialista e si impegnava a essere infelice: «Non credevo proprio nella felicità», mi dice. «Neanche adesso. Però la cerco». E non era interessato a scrivere «storie comprensibili. Perché capire può essere una condanna. E non capire, una porta che si apre». Lo dice anche a proposito dell’ultimo romanzo, che racconta il mondo dell’arte contemporanea: «L’uomo comune pensa: si stanno prendendo gioco di me. Oppure dice: io non capisco. Ma non capire è fantastico. Credo che non capire non sia un problema, ma il contrario. Se vedo una tela di Rubens, mi piace, ma la comprendo al punto da guardarla di corsa. Se vedo un’installazione di Huyghe all’inizio non capisco ma mi sforzo di capire, e questo è un modo di essere vivi».

L’eterno esordiente Vila-Matas punta il dito contro l’estinzione dello spirito avanguardistico in letteratura: «Penso che, all’inizio del secolo scorso, il romanzo “professionale” – raggiunta una tale perfezione (Balzac, Dickens, Tolstoj, Flaubert, Dostoevskij) – ha cominciato a correre il rischio di morire di successo e di congelarsi (di fatto si è congelato: migliaia di romanzieri hanno continuato a scrivere come nel XIX secolo durante il XX e all’inizio del XXI). Si è reso necessario, per ricominciare, andare alle origini dell’arte. L’avanguardia del secolo scorso ha voluto fare tabula rasa del romanzo “professionale”. È stato un momento di splendore delle avanguardie, un momento che non è tornato, e penso che sarebbe stato bene, come si può notare dalla quantità di romanzi “balzachiani” che ci inondano. La stragrande maggioranza di tutti gli editori di oggi sembrano somigliare tutti – perfino fisicamente – all’editore di Balzac. Fuori tempo». Nel romanzo Dublinesque mette in scena una satira dell’editoria contemporanea, sempre meno propensa a scommettere sugli esperimenti letterari. Più che il nuovo, che forse è impossibile, conta – dice – un anelito verso il nuovo. «In Spagna, le menti più illustri, con la scusa della crisi (che ci permette di essere più indolenti di quanto siamo stati sempre, che ci permette di non fare nulla), continuano a dire che l’arte è morta, che è morto il romanzo. È un’autentica stupidaggine». Contro la quale lui si ribella. Ogni libro deve essere un esordio carico di ottimismo. Non ha l’impressione che la letteratura che lei fa sia in pericolo? «I miei romanzi possono essere letti come un unico lavoro in cui viene raccontata – da diverse angolazioni – la storia immaginaria di letteratura contemporanea. Una ricostruzione ironica e appassionata delle guerre, dei furori, dei luoghi, dei sogni, delle ossessioni di scrittori, lettori, traduttori, artisti, librai, editori e critici; come se i miei personaggi fossero parte dell’equipaggio maledetto del Pequod e inseguissero il Moby Dick del secolo XXI. Penso che se un lavoro come il mio è in pericolo, è in pericolo anche l’umanità, cosa tutto sommato innegabile».

 

Dialogo con Enrique Vila-Matas, Paolo Di Paolo, La Stampa.