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La vita – allarmante, inaspettata, sconosciuta

Troverete, nei libri, istruzioni per l’uso di distanze e attese; anche per l’uso del vento, quando soffia molto forte, e della nostalgia, se vi assale. Istruzioni, volendo, per l’uso del profumo di biancospini, o per il recupero del vostro cervello sulla Luna, fosse finito là. Ecco, quasi tutto ciò che Astolfo, nell’Orlando Furioso, trova nel «regno de la luna», nei libri terrestri, da qualche parte, è illustrato:

«Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai» . Continue reading

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Sognare la Storia

Le prime immagini: un valzer ballato sopra un cumulo di macerie; cappelli di paglia che diventano cuffie chiodate; carta, cumuli di carta – banconote, lettere – che si spostano, che viaggiano. Istruzioni per non morire in pace non nasce come un testo teatrale sulla Grande Guerra. Nasce piuttosto come un’indagine su un mondo – il mondo tra il 1914 e il 1918 – che precipita dentro una catastrofe. I personaggi sono lì, sul crepaccio: chi lavora alle poste, chi in fabbrica, chi prega Dio, chi viaggia e insegue ambizioni, chi recita, chi dipinge, chi spia, chi compila piani militari, chi scrive. Di ciascuno colpisce l’inconsapevolezza, un’ignoranza che è anche nostra, di tutti: l’ignoranza del futuro. Il futuro – per Lelo, per Berto, per Fernando, per l’Ufficiale, per Josephine, per Stefan Zweig o per Lev Trotsky – è poco più di una nube minacciosa. Mentre la tempesta si prepara,
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La miracolosa stranezza di essere vivi

[…] Sembra che sia capitato un po’ tutto mentre battevo a macchina.
Certe mattine si sveglia e pensa questo: è capitato tutto mentre battevo a macchina. La vita, insomma. C’era la guerra, c’era da stare all’erta, alla prima piccola pausa gli altri giocavano a carte, io battevo a macchina. Jerry, mi sentivo chiamare, piantala di scrivere una buona volta. E tutto il resto: i matrimoni, i figli che nascevano. Nascevano mentre stavo battendo a macchina. Papà deve lavorare, mi trovavo a dire – ed erano già grandi, davo un altro pugno sul tavolo ed erano già andati via. La casa somigliava a un acquario asciutto. Continue reading

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La forma di una scarpa

Indovinate a quando risalgono le seguenti parole: «Siamo un Paese che sente di essere nel mezzo di un passaggio assai difficile della sua storia». Sono ritagliate da un quotidiano del 2010 o da una rivista di cent’anni prima? Soluzione troppo complicata, se già nel 1912 Benedetto Croce attaccava, dalle colonne della «Voce», certi «moralisti da caffè o da farmacia», pronti ad «annunziare e dimostrare che l’Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire economicamente o dissolversi nella corruttela».
Il grande filosofo aveva ragione o torto? Di sicuro non poteva prevedere la persistenza di un Leitmotiv che si sarebbe ostinatamente riprodotto negli anni a venire, prendendo la forma ora di disputa sull’identità in frantumi, Continue reading

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Contatti magici

Amava stanare gli scrittori, il giovane Frederic Prokosch, scrittore a sua volta. Li cercava come si cercano i libri e i dolci. O i padri.
«Potrei parlare con la signora Woolf?»
«Temo che la signora Woolf sia occupata».
Ha poco più che vent’anni, l’americano Prokosch, un fascio di fogli sotto il braccio e molta emozione addosso, quando si affaccia sulla soglia della londinese «Hogarth Press» per incontrare la grande scrittrice. «Era seduta dietro una cascata di bozze e teneva una matita dritta sullo scrittoio». Si guardano. Frederic comincia a parlare delle sue poesie (ne ha portate con sé alcune). «Sarò felice di leggerle, dal momento che sono soltanto trentatré…», sorride sarcastica Virginia.

«Oh, signora Woolf,» dissi affannosamente, «non è questa la ragione della mia visita. Sono venuto perché…»
«Voleva guardarmi in faccia, suppongo». Continue reading

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I luoghi non esistono


La nostra immaginazione è come un organetto di Barberia scassato.
Marcel Proust

La prima cosa che si impara da Proust, è che i luoghi non esistono. Non è necessario arrivare in fondo alle migliaia di pagine della Recherche, per accostare questa verità essenziale. «E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simili a quelli che l’accensione di un bengala o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta Continue reading

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Caro diario, ancora un viaggio

Il celebre viaggio di Moretti in Vespa per le strade di Roma – una vera e propria traversata della città nella luce estiva – non è facile da ricostruire. Occupa un episodio di Caro diario e somiglia quasi a un inseguimento. Ogni tratto percorso ha una sua colonna sonora, si passa da Leonard Cohen a Khaled, e la musica imprime al tragitto un’atmosfera esotica, straniata. Qualche anno fa c’è stato chi ha ridisegnato quasi al millimetro la mappa degli spostamenti di Moretti: il punto di partenza è intorno a via delle Fornaci; dopo uno stacco la Vespa ricompare nel quartiere Parioli – viale Bruno Buozzi, con la voce narrante di Moretti che ragiona sui cinema chiusi o destinati a film pornografici e a horror dozzinali; ancora uno stacco, una divagazione narrativa, e ci ritroviamo nel quartiere Garbatella. È per una di queste vie che Moretti esclama la battuta diventata poi proverbiale: «Sono uno splendido quarantenne». Via Obizzo Guidotti, per l’esattezza.
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«Sono un ricordo di Fellini»

 

Ricordi il personaggio di Amarcord? Tornava a casa con i pantaloni puzzolenti per la purga e la schiena piegata di colpi. Io ero lì, in paese, nel film. Vediamo se ti ricordi: sono quello che passa in moto avanti e indietro, non si vede mai la mia faccia, sono un ricordo di Fellini. Certo: siamo musiche che rimangono negli altri.

Osvaldo Soriano, Fútbol

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E poi dappertutto, in tutti i luoghi della terra

Una cosa che mi sarebbe piaciuto chiedergli e non gli ho mai chiesto, è quando e perché avesse deciso di tagliarsi i baffi. Come mostrano numerose fotografie, il modo di portarli lo faceva somigliare al poeta della sua vita, Fernando Pessoa. C’erano anche gli occhiali tondi, proprio come quelli di Pessoa – tradotto, studiato, narrato come un fantasma da incontrare a Lisbona sul Molo di Alcantara a mezzanotte, rievocato immaginando i suoi ultimi giorni e perfino i suoi sogni. Continue reading

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Il mio vero primo libro

Cari lettori da 3 a 99 anni, comincerò da un piccolo ricordo. Ero a scuola, avrò avuto nove o dieci anni, la maestra supplente ci mostrò la pagina di un libro, coloratissima. C’erano disegnati tanti omini, ognuno rappresentava un mestiere diverso. C’erano il fabbro, il falegname, c’erano il medico e la ballerina, c’erano l’avvocato e il postino.
C’erano anche lo scienziato, il pittore e il giornalista.
Non c’era lo scrittore.
Chiesi alla maestra il perché. Un po’ sorpresa dalla domanda, rispose che dovevo accontentarmi: c’era il giornalista. Va bene, dissi, ma non ero convinto. Il giornalista è uno che racconta storie vere, o dovrebbe. Lo scrittore è uno che racconta storie quasi vere, non tanto vere, per niente vere. Spesso inventate di sana pianta. Forse non è un mestiere molto serio, e per questo non era rappresentato in quella pagina. Continue reading

Contemplazione dell’Altro

La città (invisibile) di Tecla è un cantiere: «le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno», «gru che tirano su altre gru», scale, tralicci. Chi vi arriva, domanda agli abitanti che senso abbia quel costruire: «qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto?». Continue reading

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Raccontare Dante ai bambini

Il libro che state per leggere racconta una storia di molti secoli fa. Una storia straordinaria, diventata famosa al punto da fare il giro del mondo. Quasi in ogni luogo del nostro pianeta, c’è qualcuno che ne ha sentito parlare. Provate a fermare qualcuno per strada, domandategli se conosce Dante e la Divina Commedia. Vi risponderà sicuramente di sì, vi dirà non solo che ne ha sentito parlare, ma anche che l’ha studiata a scuola. Perché questa è una storia che fanno studiare a scuola: il protagonista è un poeta vissuto nel Medioevo, Dante Alighieri. Dopo aver scritto molte poesie e diversi libri, decide di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima.
Raccontare un viaggio incredibile, in versi, per dedicarlo alla donna che ama, morta troppo presto, a venticinque anni: Beatrice.
È come una lunghissima dichiarazione d’amore.
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«I fanciulli trovano il tutto anche nel niente»

Il romanzo di quando era bambino è uno, forse il più bello, dei romanzi che compongono come tante scatole cinesi la vita di Giacomo Leopardi.

Paolo Di Paolo lo ha trasfigurato con ispirazione e col suo poetico racconto ci conduce per mano, grandi e piccoli, prima attraverso le stanze della grande casa di Recanati Continue reading

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Con Aldo Busi

Per capire fino in fondo il titolo del suo ultimo libro, Vacche amiche, bisogna arrivare a pagina 116. Prima e dopo, come quando lo senti parlare, una valanga di storie, pezzi di vite altrui, intuizioni, sentimenti messi a nudo, la solitudine che emana dal porno e una telefonata immaginaria (per ora) con Papa Francesco, ritratti memorabili di donne, una madre nata nel ’14, “scampata a due guerre e perciò pochissimo esigente, e pretenziosa e vittimista mai”, incontri, scontri, Proust e un bellissimo elenco di gesti contadini, parecchie verità che nessun altro pronuncia – tutto nella forma di un romanzo, il romanzo di una voce, carico di vita da stordire, come la bellezza dell’alba nella pagina finale. Anche quando parla, seduto al tavolo di una trattoria romana, Aldo Busi lo fa con la stessa lingua dei suoi libri. Tra le più belle che siano state messe su carta, in Italia, tra ventesimo e ventunesimo secolo. Ma chi lo ferma per strada nel giorno dell’eclissi solare – “maestro!”, “professore!” – forse non lo sa, e gli nomina solo le apparizioni in tv. Lui preferisce di sicuro questo, a chi lo snobba per avere partecipato all’Isola dei Famosi.

“In tanti anni di viaggi in treno, in aereo, non ho mai incontrato nessuno con un mio libro in mano”. Non gli dispiace troppo, o così dice. “Sa, che quanto ho scritto venga letto o no, ora o dopo, s’è fatto troppo tardi perché mi riguardi ancora. Se dopo i primi romanzi mi avessero dato il Nobel, avrei detto: che bravi. Me ne dessero dieci oggi, cosa mi cambierebbe? Come prendere tre camomille”. In Vacche amiche confessa anche di essersi stancato di viaggiare. Eppure ha girato, e raccontato, mezzo mondo. “Se finisco per spostarmi, una volta arrivato non esco dalla stanza d’albergo. Per il resto, sto a casa. Quella smania di correre qua e là, di cambiare sedia di continuo, si è spenta. Adesso voglio stare seduto, ingrassare, diventare come Marlon Brando”.

Troppa vita alle spalle? “Ma no, il contrario. Una bellissima puttana creola, nel romanzo, me lo dice chiaro e tondo: tu ti ritieni tanto intelligente, ma se non hai capito che quando è il momento di godersi la vita, bisogna godersela animalescamente, vuol dire che tanto intelligente non sei”. Ma come? E tutti quei viaggi anche rischiosi, affamati di vita… “E di sesso, sì. Be’, sapesse quante volte ho scopato solo per poterne scrivere! Questa è stata la mia dannazione, il mio azzardo. Ogni mia esperienza l’ho fatta consapevole di quale fosse il fine, compreso il fine del piacere. Il piacere del testo!”.

Uno scrittore, dice, è un ostaggio di se stesso: “Non ho scienze innate né verità in tasca, non sono religioso, superstizioso, non ho una voce oltre la mia, sono io e basta, sono poco, devo ampliarmi, forzarmi, andare di gomito. L’auto-violenza che mi ha portato a essere scrittore l’ho pagata fingendo di vivere. Se ho avuto un uovo posso dividerlo a metà, non trasformarlo in due. Una parvenza di guscio sì, la metti dappertutto, e per anni ho cercato di metterlo soltanto nella vita, ma non interessava a nessuno, era un uovo Fabergé. Quando ho detto di essere stato respinto, non esageravo, e li capivo, ero troppo psichico, non mi accontentavo mai, da un punto di vista mentale soprattutto”. Il suo romanzo comincia dalla solitudine. Ha qualcosa di maestoso, e forse anche di sofferto. Gli domando se è così: “Mi dispiace per gli altri più che per me: fin tanto che ci sono stato, ero braccia aperte, ma gli altri avevano paura, e adesso io sono troppo vecchio. Ho detto una cosa anni fa, l’unico dogma che ho fatto mio: meglio mai che tardi”.

Dice che non fa sesso dal 2004. E che gli capita di lasciare spento il cellulare per due giorni e di non farci caso. Che vita è?, domando. Si arrabbia. “Se non è vita, è il finis vitae: bellissimo. Esco, mi fumo una sigaretta, rientro, mi invento una salsa, che poi non mangio, però la faccio con tutti i crismi, oppure prendo una faraona e la riempio al modo rinascimentale, con tutte le spezie possibili, venticinque elementi, perfino il cacao, cucio, invito due morosi a pranzo che mangiano e basta, senza dire una parola, non ho nessuna fregola. È una cosa che non si può dire, te la fanno pagare se la dici: sarei pronto in qualsiasi istante a morire, preferisco morire piuttosto che andare a fare una passeggiata a Villa Borghese ora che c’è il sole. Posso dirlo? Corrisponde a quello che sento. Punto e basta. Non ho altro da aggiungere, non posso fornire il testo e l’interpretazione del testo, le pare?”. Confessa di sfuggita di essere passato da un pieno troppo pieno a un vuoto troppo vuoto, dal rischio di annegamento a quello di assideramento sulla spiaggia. “Si tratta di estremi, ma gli estremi non te li scegli. E comunque non ho nostalgie, non sono triste”. L’energia mentale, in effetti, è impressionante. “Nessuna leggenda vivente o morente può fare pari e patta con una vita così intelligente e sanguigna e volitiva e così poco vissuta, però, e questo mi sconcerta più di tutto, senza rimpianti”. Continua a scrivere, ovviamente. “Sì, ma sempre meno. Quando uno si è piegato a dar voce e corpo agli altri, a tutti i possibili altri, alla fine cosa gli resta? Di dar voce e corpo a se stessi. E di tenere per sé quel poco di sangue che rimane: non me lo godrò, non importa, ma che liberazione!”. Perché il sottotitolo è “autobiografia non autorizzata”? “Uno pensa che per fare autobiografia debba avere alle spalle almeno uno stupro, un omicidio, una guerra, ma no, basta un qualunque dettaglio sordido, sordido e senza particolari peccati, perché sordida è l’umanità. Bisogna però che tutto sia espresso con la dovuta grazia estetica. Ho sempre trovato interessanti gli altri, perché non fingere, per una volta, un me che trovi davvero interessante me stesso?”

Vanity Fair, 3 aprile 2015

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Con Mario Martone

Mario Martone siede a un tavolo di legno chiaro in una sala prove del Teatro India. Ci stiamo formando come compagnia in questo momento, dice agi attori. È solare, energico. Dà indicazioni, rilegge le battute in napoletano, si unisce al canto: è una Carmen di Bizet riscritta da Enzo Moscato e musicata dall’Orchestra di Piazza Vittorio. Gli attori indossano maglioni larghi, camicie stazzonate, hanno la matita in mano, non fanno che sorseggiare acqua dalle bottigliette di plastica. Si alzano stanchi, o solo nervosi, fanno avanti e indietro sul parquet pieno di graffi. Gli dico: ho visto il film su Leopardi tre volte, e le signore in età, istruite, si sono puntualmente accodate all’attore protagonista per fargli eco «Sempre caro mi fu» o «Dolce e chiara è la notte…». Quando alla finestra di fronte è apparsa la ragazza intenta a filare, i cinque o sei liceali presenti alla proiezione pomeridiana non si sono trattenuti: «Silvia!». Chiedo al regista se è una cosa che un po’ gli dispiace. Sorride. «È normale», spiega, «che le memorie scolastiche si facciano vive. Basterebbe non fidarsi solo di quelle». Sì, gli rispondo, per godere fino in fondo un film come quest’ultimo che ha fatto, Il giovane favoloso, bisognerebbe dimenticare tutto, non sapere più niente, lasciare da parte per una volta o per sempre le storie sul pessimismo diviso in fasi. Come se un sentimento, o una visione del mondo, potessero essere ridotti a fasi Bisognerebbe lasciarsi trasportare da questa «storia di un’anima» come fosse la vita di un anonimo o di un poeta straniero: così, la nebbia dei mattini d’infanzia a Recanati, i giochi e il sogno di felicità, tutta quella solitudine, il gelo del paterno ostello, le premure di un padre ingombrante, tutto tornerebbe ai nostri occhi come nuovo, più vero. «Ecco, pensa a Monaldo. È stata una delle cose più affascinanti e complesse di tutta la nostra avventura ricostruirne la personalità. Monaldo è un personaggio su cui si sono incrostati troppi luoghi comuni: questo padre è per lo più visto come figura negativa, uno che intrappola Giacomo e basta. In realtà, è un letterato capace anche di ironia, benché sia autore di un libro reazionario, tremendo che ebbe un enorme successo, molto superiore a quello che ebbero i libri di Giacomo in vita. Era in tutto e per tutto un intellettuale del tempo. Il figlio era un secolo più avanti di lui. Ma quella con Giacomo resta a tutti gli effetti una storia d’amore, di grande amore, amore reciproco, e come una drammatica storia d’amore diventa poi una storia di gelosia, di abbandono, di competitività. Solo sul set è diventato chiaro che si potesse raccontare questo rapporto così». Dovremmo sforzarci di risapere tutto da capo, di non fidarci più di nessuna nozione. Così, tornerebbe a essere più complesso, più mobile, più vivo l’itinerario esistenziale di quello che è stato il vero grande genio letterario dell’Ottocento non solo italiano. Ma Leopardi – ho pensato questo per tutto il film – non l’abbiamo mai davvero capito, schiacciati a leggere i Canti e poco più con la stessa disattenzione dei suoi contemporanei. «Loro credevano nelle “magnifiche sorti e progressive”, e mi viene da dire, da un certo punto di vista: per fortuna. Mazzini odiava Leopardi, per esempio. Ma uno come lui, ossessionato dall’utopia, non poteva che detestare il poeta di Recanati. Lo sguardo di Leopardi correva oltre, riusciva a intravvedere – nel futuro o nell’eterno dell’umano – le macerie che le “magnifiche sorti e progressive” sempre producono. D’altra parte, nel film, assumendo la prospettiva di Leopardi, non potevamo ignorare i suoi critici, i detrattori: non tanto per rimproverare agli “amici di Toscana”, o a Tommaseo, la miopia, ma per raccontare piuttosto le ferite che certe incomprensioni, scelte e  ipocrisie delle eterne parrocchie della società culturale italiana hanno lasciato in lui».

Mi è venuto di pensare che nel suo film Martone, giustamente e delicatamente, insinui che anche noi, come gli azzimati frequentatori di salotti che rimproverano al conte Giacomo gli eccessi di infelicità, abbiamo capito ancora troppo poco di Leopardi. Non si spiegherebbero altrimenti certi commenti un po’ isterici, risentiti al film, venuti non dal pubblico o dalla critica cinematografica, ma – siamo alle solite – da inutili critici letterari. Nessuno si ribella all’umanissimo Turner ritratto da Mike Leigh, ma da noi saltano subito sulle sedie quando si fanno scendere i monumenti dai piedistalli. «Non posso negare di avere avuto molti timori. Ci tremavano quasi le vene dei polsi pensando a come portare sullo schermo i versi dell’Infinito o della Ginestra. Era una sfida, un azzardo. Restituire alla grandezza della mente di Leopardi il suo corpo, farlo vedere, tremare, soffrire. Leopardi non era infelice perché malato – è lui stesso a ribellarsi a questo fraintendimento – ma c’è una fortissima relazione in lui fra un’interiorità e un corpo sofferenti. Volevo mostrare come un corpo malato possa esprimere una straordinaria forza creativa. Non volevo dimenticare il suo corpo perché questo significava non dimenticare la sua fame di vita. Un’energia impressionante che per paradosso viene dalla fragilità estrema». Per questo serviva un attore, l’attore giusto. «Ho pensato a Elio Germano perché la sua sensibilità e il suo temperamento ribelle sono tratti che mi sarebbe piaciuto trasferire al Leopardi che avevo in mente. Per mesi e mesi abbiamo attraversato insieme le opere di Leopardi: la poesia, certo, ma anche l’epistolario, che è di per sé un capolavoro, lo Zibaldone, le Operette morali, sempre troppo trascurate. Elio è stato al tempo stesso rigorosissimo e liberissimo – e questo dà alla sua interpretazione un tratto unico».

Il rigore e la libertà insieme. Questo ci vuole, in un ritratto? «Bisognava guadagnarsela palmo a palmo questa libertà, senza la quale il ritratto di un uomo del passato non sarebbe “vivo”». Martone l’ha cercata anche nei luoghi e nelle scelte musicali. «Quando preparavo Noi credevamo, avevo una scatola – la chiamavo “la scatola nera del film” – in cui accumulavo ritagli di immagini pittoriche, illustrazioni d’epoca mescolate a fotografie di paesaggio italiano attuale. Come si fa un film ambientato nell’Ottocento senza creare un presepe posticcio?, mi chiedevo. Per il film sul Risorgimento così come per quello su Leopardi non ho voluto ricostruire niente: tutti gli ambienti sono reali. Ho dunque girato quei film nel presente, scavando nel presente come fanno gli archeologi. Quanto alla colonna sonora, seguendo lo stesso metodo, ho messo accanto a Rossini un musicista tedesco trentenne, Sascha Ring, conosciuto come Apparat, idolo della musica elettronica. Gli ho portato il film in un primo montaggio, senza sottotitoli: l’ha guardato senza poter capire, fidandosi solo della suggestione delle immagini. E di una versione dei Canti in inglese».

A me, il risultato – nella scena in cui Leopardi si contorce sul lungarno dopo una delusione d’amore e la camera si alza e lo osserva dall’alto – è sembrato convincente: non è forse anche questo un modo per mostrare un essere umano più avanti rispetto ai propri tempi (e rispetto ai nostri)? Un essere umano nel «sempre». Spiazzante? Sì, ma come è bene che spiazzi l’ingegno di Leopardi. «Quest’idea di sapere libero, la disinvoltura con cui passava dalla filologia all’astronomia, non è forse tutt’oggi spiazzante?» domanda Martone. «Nella scena finale», mi spiega, «quella in cui la voce fuori campo di Germano recita i versi della Ginestra, resta soltanto la forza delle sue parole. La sua capacità di sentire la verità della Natura, di sprofondare in essa. Il suo corpo non c’è più». Al soggiorno napoletano dedica parecchio spazio. «L’importanza di Napoli nel film non è riguarda solo le mie origini. Una delle ragioni più forti che mi hanno spinto a girare Il giovane favoloso è stato proprio quel viaggio con Antonio Ranieri. Anni fa, portai in scena un monologo di Enzo Moscato su Leopardi a Napoli, e da lì viene anche la famosa – o famigerata – scena del lupanare, l’unica che non sia nelle “fonti”. Quando ho visto Recanati – una prigione borgesiana così opposta al colore e al calore di Napoli – mi sono chiesto che strano viaggio potesse aver compiuto quel giovane uomo tanto fragile». A un certo punto, Leopardi è in cattive condizioni di salute e il medico dice di aprire le finestre. Entra un’onda di luce del Sud. Anche in Noi credevamo il buio e la luce erano come due spazi distinti dell’esistenza. A Napoli, si fa ancora più drammatico il conflitto fra le energie del corpo e le energie del pensiero, diciamo pure le idee, la capacità di sentire, di vedere, di capire e di desiderare – una corrente elettrica che tocca poche antenne, le più all’erta. Lo spazio che Martone dedica all’amicizia prima con Pietro Giordani (è commovente la scena in cui Leopardi riceve una delle prime lettere di apprezzamento) e con Ranieri poi, ha a che vedere con questo piccolo cordone di difesa che, in ambienti ostili, tiene vivo Giacomo e un po’ meno solo.

L’Anna Banti di Noi credevamo, Leopardi per le Operette morali portate splendidamente a teatro e per il film biografico, e prima Elena Ferrante per L’amore molesto, e Goffredo Parise per L’odore del sangue: con la letteratura Martone ha un rapporto molto stretto. «Sì, la scrittura, la pittura, il teatro, la musica – tutto è parte della mia unica fede, quella nella capacità di immaginazione umana. Sono affascinato dal gesto di chi crea, di chi compone, di chi dà forma a un tessuto di parole o di immagini. È un gesto che ha del miracoloso: fa esistere qualcosa che non c’era in natura – una musica di Mozart, un grande romanzo – e apre uno spazio di relazione fra esseri umani che spesso scavalca i secoli». Martone sembra interrogarsi di continuo sulla tradizione, sulla memoria collettiva. «Inseguo un’idea di passato laddove sento che può rimanifestarsi come cosa viva. Nessuna nostalgia. Il punto sarebbe far rivivere il presente di chi non c’è più, riattivarlo senza avere per questo una visione postuma. Tutti i miei film nascono da domande sul presente, anche Il giovane favoloso, perfino Noi credevamo, che indaga nel nostro Risorgimento. Non sono mai stato uno studente modello, non coltivo nessuna ambizione accademica e non sono appassionato alle ricostruzioni d’epoca. Nello specifico, del Risorgimento sapevo molto poco, come credo parecchi italiani anche colti. Mi sono sentito chiamato da quei ventenni di allora, dalle loro storie, con un’urgenza che riguardava l’oggi.  D’altra parte diventare quel che si è, è impossibile senza fare i conti con il passato. Che sì, resta sempre una terra straniera, un posto abitato da fantasmi. Ma se funziona come giacimento e alimenta il presente, lo rende perfino più vivo».

Ecco: diventare ciò che si è. È  il tema portante di qualunque ritratto. Il ritratto di Leopardi, certo. Ma anche il ritratto di Martone, volendo. Sarei curioso di riavvolgere la sua storia di artista diviso fra teatro, cinema, opera lirica. Chi era il ragazzo Mario, nato a Napoli nel ’59? Quando ha capito che sarebbe diventato ciò che è? «Diventare ciò che si è» ripete, «sì, è una frase chiave. Riguarda il rapporto fra sé e quello che per comodità chiamiamo destino. Ho iniziato giovanissimo: a cinquantacinque anni me ne trovo già alle spalle quaranta di lavoro. La prima regia teatrale la firmai da adolescente, erano gli anni delle cantine e delle sperimentazioni». Ma c’è un istante, un segno in cui ha riconosciuto una vocazione? Ci pensa, dice di ricordare lui che si volta, una sera, in un teatro, quando il pubblico se n’era andato e c’erano gli oggetti di scena accatastati, muti sul palco. «Li ho guardati, un fascio di luce li illuminava, o forse addirittura li trasfigurava, e ho pensato che quello era il mio luogo, il luogo che avrei voluto abitare». Sostiene di avere una memoria intermittente, di ricordare per lampi. «Comunque, da ragazzino già mi piaceva raccontare storie. Prendevo in mano soldatini, animaletti di plastica, oggetti trovati in casa e inventavo storie di cui mio fratello più piccolo era lo spettatore obbligato». Non l’ha mai sfiorato l’idea di fare l’attore. Il primo successo, con lo spettacolo-performance Tango glaciale, fu tale da rischiare di «schiantare ogni possibilità futura». Arrivò in America ed ebbe fra gli spettatori anche Warhol e Scorsese. «Fu invece l’inizio di un percorso fitti di evoluzioni e anche di ripensamenti. Era un teatro molto visivo, le immagini e la musica erano centrali. Le parole erano in secondo piano. Ci ho messo un po’ a fare pace con le parole, ho dovuto cercare una chiave d’accesso. A distanza di anni mi rendo conto che anche in quegli esordi c’erano i semi di lavori futuri. Mi sembra di essermi sempre mosso come all’interno di uno stesso arcipelago, le isole sono autonome ma non del tutto estranee l’una all’altra. Così, quando diressi un Otello di Verdi, qualcosa di Tango glaciale c’era ancora, come un deposito sotterraneo di suggestioni. E ancora oggi, portando in scena la Carmen, ritrovo corrispondenze imprevedibili con gli esperimenti del passato, segni di continuità di cui io stesso rimango stupito». La carriera di un artista, dice Martone, è sempre uno strano percorso fatto di salti spazio-temporali. Idee, temi, persone – tutto torna, si lega, si riannoda. «Mi conforta pensare all’esistenza di qualche spettatore che possa aver seguito un ampio tratto di questo percorso. E magari riesce a vedere dei segni, dei legami che non vedo nemmeno io». Puoi giocare a fare tabula rasa quanto vuoi, ma autentiche cesure non esistono: «Io provo sempre, per quanto posso, a sparigliare, a spiazzare. Vedi? Dopo Leopardi faccio questa Carmen di Bizet napoletanizzata. Eppure non si riparte mai davvero da zero». Gli domando come si sia trovato a incrociare l’opera lirica, visti quegli esordi sperimentali. Un’eredità familiare? «No, tutt’altro. La musica, come dicevo, c’era moltissimo nelle prime performance. Incidevamo sul revox la colonna sonora della spettacolo è quella diventava la spina dorsale dell’azione scenica. Per certi versi si può dire questo anche dell’opera. Mi era stato proposto varie volte di allestire una, ma temevo le rigidità di quel mondo, le poche prove. Fino a quando Mauro Bolognini chiamò me e il mio gruppo di lavoro perché ci occupassimo delle scenografie video di una Vedova allegra molto classica, con i costumi di Piero Tosi”. Più avanti sarebbe arrivata la proposta di allestire Così fan tutte di Mozart: “E fu una scoperta importante, perché si tratta in effetti di un’opera non solo musicale ma teatrale in senso pieno. Dissi a me stesso: proviamo. Gli spazi d’azione erano ampi, me ne resi conto strada facendo. Fu l’inizio di un viaggio che dura tuttora».

E il passaggio dal teatro al cinema come avvenne? «In modo molto naturale. Non ho fatto scuole, ho cercato sempre di capire come realizzare i progetti su un piano pratico, da falegname del teatro e del cinema. Sulla strada ho incontrato maestri che in verità consideravo più fratelli maggiori che padri. Penso a Fabrizia Ramondino, a Carlo Cecchi. O ad Antonio Neiwiller, di poco più grande di me: la sua scomparsa prematura è stata un grande colpo, che ha spezzato la mia vita. Era, nel nostro gruppo, il più radicale, ossessionato da come mantenere viva l’anima e non tradirsi in un contesto come quello dello spettacolo, che non potrebbe non avere anche aspetti commerciali». Di Martone, Carlo Cecchi dice che è uno degli uomini più indaffarati che conosca. Bisogna sempre un po’ inseguirlo, in effetti. «I tanti piani di lavoro a cui mi dedico non mi consentono di ritagliare molte pause riflessive, o momenti di bilancio. Preferisco il movimento inesausto e il rumore di un cantiere». Mi viene in mente, gli dico, la città di Tecla immaginata da Calvino. C’è un gran fragore di gru, martelli, viti e bulloni. Il viaggiatore chiede quale sia il senso del costruire, quale sia il progetto. Gli rispondono: ora non possiamo interrompere, te lo mostreremo quando scende la notte. Arriva il momento, è una notte stellata, e gli abitanti di Tecla indicano il cantiere: ecco il progetto, dicono. «I riconoscimenti che arrivano fanno bene, spingono ad andare avanti, ma non mi fermo mai troppo a considerarli, preso dal progetto successivo. E comunque non dimentico i fallimenti, le difficoltà: per anni, a ogni riunione natalizia con la famiglia, ho ripetuto che stavo preparando un film sul Risorgimento. A un certo punto nessuno ci credeva più. Neanch’io».

Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 2015

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Truman Capote il cantiere del camaleonte

Prima di diventare, come spesso sono oggi, impiegatizi e un po’ aridi, gli scrittori erano maghi. Indecisi se disegnare, raccontare storie o diventare ballerini di tip tap, capivano a naso che «la differenza tra un ottimo stile e la vera arte è sottile ma feroce»; sapevano che il talento è anche una frusta «predisposta unicamente per l’autoflagellazione», e che la vera letteratura nasce dall’oscurità, dalla parte «più folle della follia». Continue reading

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Dimenticare Montanelli?

Vorrei sbagliarmi, ma temo che l’Italia non sappia più che farsene di Indro Montanelli. Quando lui stesso, negli ultimi anni, non faceva che ripetere «So di avere scritto sull’acqua», quando ricordava la frase del suo maestro Ugo Ojetti – «L’Italia è un paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria» – credevo si trattasse di una posa scaramantica. In una delle ultime “Stanze” (la rubrica che ha tenuto quotidianamente sul Corriere della Sera, tra il ’95 e il 2001), spiegava a un lettore che è inutile preoccuparsi di cosa lasciare ai posteri, e lo faceva con la certezza di essere ricordato «dai miei lettori e, tutt’al più, dai figli dei miei lettori».

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Il museo di un romanzo

Che cosa resta di un romanzo che abbiamo scritto? Un file salvato nel computer, sì, e molti appunti: quaderni fitti di idee che avremmo voluto sviluppare. Molte le abbiamo dimenticate, perse di vista, tradite. Restano frasi su post-it gialli che sembrano indicazioni geografiche a vuoto. «Esuli di Joyce va in scena la sera del 14 febbraio 1926». E allora? Allora un romanzo, qualunque romanzo, è sempre inferiore all’idea astratta che ne avevamo in partenza.
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La letteratura prende corpo

In realtà questo ottimo saggio illustrato Piccola storia del corpo di Paolo di Paolo (Giulio Perrone editore), si compone di tre sezioni, soltanto due delle quali, le prime, sono state scritte dallo scrittore romano, e si intitolano: “Una corsa, un volo” e “Il personaggio-corpo”. La terza parte è un affascinante e puntuale percorso artistico firmato da due studiosi-saggisti: Alma Gattinoni e Giorgio Marchini sulla rappresentazione del corpo nell’arte figurativa tra secondo ’800 e ’900. La prima sezione si ricollega idealmente alla terza, analizzando il corpo nella letteratura dall’antichità fino alla contemporaneità con qualche inevitabile incursione nell’arte figurativa. Di Paolo, accompagnato idealmente dal suo amato Tabucchi (a sua volta autore di una “storia del corpo”), prende le mosse dalle pagine de “Il muro”, mitico libro di racconti di Sartre, nel quale il personaggio Lulù a un tratto bruscamente domanda: “Perché mai abbiamo un corpo?”. “La tragedia del corpo nella contemporaneità – scrive Di Paolo – “è forse già tutta qui, in questi pensieri di Lulù, Continue reading

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Mandami tanta vita

Il museo di un romanzo

Che cosa resta di un romanzo che abbiamo scritto? Un file salvato nel computer, sì, e molti appunti: quaderni fitti di idee che avremmo voluto sviluppare. Molte le abbiamo dimenticate, perse di vista, tradite. Restano frasi su post-it gialli che sembrano indicazioni geografiche a vuoto. «Esuli di Joyce va in scena la sera del 14 febbraio 1926». E allora? Allora un romanzo, qualunque romanzo, è sempre inferiore all’idea astratta che ne avevamo in partenza. Una volta pubblicato, come sapeva Henry James, si è assaliti dalla tentazione di sacrificare la prima edizione e cominciare dalla seconda: «Ah, ripartire di nuovo, avere un’occasione migliore!». Inutile quindi passarsi fra le mani queste carte cariche di promesse non mantenute, di voci bibliografiche tralasciate, di immagini buttate via: un patrimonio dilapidato. Eppure a volte, di un romanzo, resta un piccolo museo. Orhan Pamuk l’ha costruito a posteriori, a Istanbul, per una storia d’amore: Il museo dell’innocenza. Una folla di fotografie, bottiglie, sigarette, pettini, spille, orologi diventa il deposito materiale del sentimento (romanzesco) che ha legato Kemal e Füsun: quasi fossero non personaggi ma persone vere, che vivendo hanno lasciato la loro scia di oggetti.

Scrivendo Mandami tanta vita, sulle tracce di una vita inabissata nell’inverno del 1926, ho – come accade a chiunque lavori sul passato – accumulato documenti, letto libri, fatto la fila al banco delle fotocopie in biblioteca. Poi però, uscito di lì, mi dicevo: non basta. E mi ostinavo a cercare ancora: piccole librerie, bancarelle dell’usato, robivecchi, eBay – pur di sentire tra le mani l’aria di quel tempo. È una pretesa assurda, votata al fallimento, ma non ho smesso per un attimo di alimentarla, con il gusto del collezionista dilettante. Soddisfatto per un niente: la copia in buono stato della «Domenica del Corriere» uscita il 14 febbraio 1926, due giorni prima che la trama del mio romanzo si concluda. A cosa è servita, ai fini della narrazione? A nulla, ma volete mettere il piacere di avere davanti agli occhi le tavole di Beltrame? Sulla prima pagina, un uomo finito sotto un treno nel lucchese: «tutti i carri del convoglio gli passarono sopra lasciandolo tuttavia incolume». E poi le poesie sul carnevale, le novità per le acconciature («modelli parigini per la sera»), le pubblicità (il brodo Arrigoni per una minestra «appetitosa»), i consigli per sbarazzarsi di tutti i mali ai piedi.
Mi emoziona sapere che queste pagine hanno preso la luce di una domenica mattina di quasi novant’anni fa. L’idea che qualcuno le abbia sfogliate, lette davanti a un caffè. Così il passato sembra sul punto di svegliarsi e tornare, diventa uno spazio ancora abitabile. La letteratura offre questa illusione, ed è la stessa di quella cameriera che, nella Rosa purpurea del Cairo di Allen, sogna di vivere in un film in bianco e nero, o di quello scrittore in crisi che a mezzanotte incontra Hemingway e Fitzgerald, in Midnight in Paris. Gli oggetti, le cartoline, i vecchi giornali sono stati per me come quel rintocco d’orologio, come la ricetta di un incantesimo. Come la macchina del tempo. A stesura ultimata, avevo intorno un piccolo, inutile, sorprendente museo involontario. Quando avevo acquistato la riproduzione di timbri postali degli anni Venti? E quando mi ero messo in cerca di vecchie, anonime fotografie, di locandine cinematografiche, di pubblicità di grammofoni? «Possedere uno di questi strumenti significa avere tutti i più grandi artisti da Tamagno alla Patti, da Caruso a Titta Ruffo…». Grammofoni in quercia, in mogano, cinquanta modelli di strumenti da lire 500 a lire 8600, a molla o elettrici. Stampe della vecchia Torino: il manifesto dell’esposizione del 1898, con un pallone aerostatico che sale sopra la città; piazza Castello con l’insegna di un Grand Hotel, signore a passeggio e un barroccio al centro della scena; il Teatro Balbo e un capannello di gentiluomini all’ingresso. Figurine scure, indistinguibili, vite di uomini non illustri perse nel tempo. Che fine avete fatto? Possibile – come si chiedeva Benigni nella Voce della luna – che non si sappia più niente di voi?
Ho acquistato perfino fascicoli, neanche troppo economici, di una rivista illustrata americana, «Mid-Week Pictorial», anno 1925. Gossip dell’epoca, nuotatrici, principesse, corse di cavalli, acrobazie di cani. Fotografie grigioblu su una carta che si sfarina fra le mani; cruciverba a premi: con il più facile, si vincono quindici dollari. Il numero di gennaio-febbraio 1926 di «Esercito e Nazione. Rivista per l’ufficiale italiano» presenta la riproduzione di un testo autografo del Primo Ministro d’Italia Benito Mussolini sui progetti militari. L’articolo «Il Marocco nelle sue caratteristiche geografico-militari» offre anche una cartina a tre colori che segnala i limiti dell’occupazione francese e spagnola al 1° aprile 1925. Meno suggestiva una dotta analisi sul tema «Carri armati contro reticolati». Adorabile invece un numero del «Giornalino della Domenica» diretto da Vamba, con una fiaba giapponese illustrata e il Cantuccino degli enigmisti di Fra Bombarda. Mi dispiace avere trascurato, su un numero del «Mondo» dell’estate 1917, una riflessione accigliata sulle bagnanti che «si abbandonano al cosiddetto bacio dell’onda solo indossando corpetto e mutandine» e un velenoso ritratto di Amalia Guglielminetti firmato Pitigrilli.
Sono tornato anche più indietro, là dove il mio romanzo non arriva: alla settimana in cui a Torino nasceva Piero Gobetti, il protagonista di Mandami tanta vita, giugno 1901. Sull’«Illustrazione italiana» si annuncia, per il prossimo numero, uno splendido articolo di De Amicis sui lavoratori del mare nel porto di Genova. Peccato non averlo. A Roma è stato aperto da poco il nuovo Ponte Cavour; un disegno dal vero mostra senatori e deputati in visita al Re per rallegrarsi della nascita della Principessa Iolanda. Sulla copertina, fra le tante pubblicità, anche quella del Liquore Strega, ditta Alberti, casa fornitrice di Sua Maestà. Non ci avevo fatto caso.
Il mio piccolo museo involontario è tutto in una scatola di cartone. Da custode e unico visitatore, ne riconosco la stralunata e sentimentale inutilità. Eppure queste tracce tanto fragili mi sembra di averle messe in salvo, riportate a casa da un viaggio, ma nel tempo. Non è sempre questo, lo spirito del collezionista? Per tutti i giorni che ho speso a scrivere il romanzo, il calendario diceva contemporaneamente 2012 e 1926. Ero anche lì, a chiamare nomi, a sentire freddo, a mettere il naso in affari non miei. Ho sentito la mia vita dilatarsi all’indietro; rompere le leggi – almeno quelle apparenti – della fisica. Mi è sembrato lecito aspettare ciò che non può tornare, e anche chi non può tornare. Mi sono ricordato che soprattutto per questo, amo leggere romanzi.

 

Mandami tanta vita

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Dove eravate tutti

Quel che resta del Paese di “colpo grosso”. Il romanzo italiano sui vent’anni del Cavaliere

 Di Antonio Tabucchi, La Repubblica, 7 settembre 2011

 

“Dove eravate tutti” di Paolo Di Paolo ha come protagonista uno studente universitario alle prese con l’impossibile stesura di una tesi sul berlusconismo.

L’autore, nato nel 1983, ha già al suo attivo una folta produzione narrativa e di saggi.
Un affresco composto di notizie di giornale, foto, lacerti di realtà della nostra epoca.

Mentre sento che in Italia, paese dell’eterno ritorno, si è ricominciato a piangere sull’imminente “morte del romanzo” che mezzo secolo fa costituì il tormentone della neo-avanguardia di allora, vedo con piacere che i giovani (e anche i meno giovani) scrittori italiani continuano a scrivere romanzi. O qualcosa che appartiene al genere che per convenzione definiamo “romanzo” e che naturalmente non ha niente a che vedere con la creatura di cui si piange la futura scomparsa, essendo costei defunta da tempo per cause naturali. Una modesta creatura il cui avvincente incipit (parlo per metafora) suonava all’incirca così: «La Marchesa uscì di casa alle cinque in punto». Anche se il feuilleton di tipo ottocentesco basato sull’uscita della Marchesa continua ad occupare i banchi delle librerie e le sdraio degli stabilimenti balneari (ma questa è una legge dell’industria del consumo, che per fare un solo prodotto di qualità deve produrre almeno una tonnellata di scorie), coloro che oggi scrivono buona letteratura sanno che la Marchesa che uscì alle cinque non ha più fatto ritorno, ed è inutile stare ad aspettarla. Ed è curioso notare come nonostante lo stantio ambiente culturale italiano, o forse proprio in reazione ad esso, la giovane letteratura italiana (intendo della generazione dei trentenni e dei quarantenni) sia una delle più nuove e vivaci d’Europa; una letteratura che se l’avessero i francesi e gli inglesi riuscirebbero a imporla nel mondo con la forza di una esportabilità linguistica che noi non abbiamo. Qualche tempo fa l’italiano era almeno una lingua di cultura; ora, dopo la sistematica distruzione della cultura, non è più neppure questo. E altro che signore marchese che uscirono di casa alle cinque: qui si tratta di un paese intero che vent’anni fa s’imbarcò su una nave da crociera verso lidi ignoti, facendo perdere le proprie tracce ai radar dei “politologi” e degli “statistici” che ancora la cercano invano.

‹‹Mi perdoni se entro nel campo personalissimo delle mie visioni, se non addirittura delle mie allucinazioni. Mi creda, mi è sembrato di averla davanti agli occhi: una nave da crociera. Il pensiero mi ha accompagnato fino a notte e non mi ha ancora lasciato: l’Italia, per vent’anni, è stata una nave da crociera. Non le pare? Con i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. La vacanza dev’essere cominciata con una cosa che, per età, non riesco a ricordare per memoria diretta. Ne hanno mandati in onda alcuni passaggi l’altra sera. Si chiamava Colpo grosso, lo trasmettevano su Italia 7, gestione Fininvest››.

Con questa citazione, che è a p. 136, credo di aver toccato il cuore del romanzo di Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, appena uscito presso l’editore Feltrinelli (pagg. 224, euro 15). Paolo Di Paolo è un giovanissimo (nato nel 1983), ma ha già al suo attivo una produzione saggistica e narrativa insolitamente folta per la sua età. E se non posso definire questo romanzo un esordio, esso è certo un felice ingresso in una narrativa impegnativa e matura, anche in virtù del complesso disegno con cui è costruito, con una storia che fa da sinopia a un affresco composto di notizie di giornale, di fotografie, di lacerti di realtà politico-sociale, di mitemi attuali, di idioletti epocali, di ciò che costituisce non soltanto il sapore ma lo Zeitgeist dell’epoca nostra.

L’autore appartiene a quella generazione che dall’infanzia a oggi in Italia non ha conosciuto altro che il sistema tolemaico di quell’imprenditore brianzolo proveniente da un¿associazione eversiva che la stampa italiana, con un anglicismo fuori luogo definisce “il premier”. E che ha come “seconders” (a questo punto ci sta bene) boss mafiosi, corruttori di giudici, sub-agenti dei servizi segreti, giornalisti al soldo, sicari, cardinali, magnaccia e cocainomani. Un tipetto che di quella nave da crociera, dove dapprima faceva l’intrattenitore, è divenuto il capitano.

‹‹Saliti sulla nave da crociera, abbiamo preso il largo. Diretti dove? Era impossibile capirlo. Ma siamo rimasti a bordo per vent’anni. Le vacanze erano finite, veniva da piangere a tutti, come in una pubblicità. Però qualcuno deve aver detto che si poteva restare. Si poteva non scendere più. Lui avrebbe continuato a intrattenere, a sorridere, a cantare. Un giorno, quando sembrava che tutto sarebbe durato così per sempre, il Capo sarebbe sceso›› (p. 137).

Ecco per dove era partita la nave da crociera su cui si era imbarcata l’Italia: verso presunte ‹‹donne di sogno, banane e lamponi›› che l’intrattenitore, Joker di un fumetto scadente, aveva promesso a tutti, ma proprio a tutti, firmando un “contratto” televisivo seduto a una scrivania di ciliegio di fronte a un presentatore che fingeva di essere il notaio. Il ventennio berlusconiano, mascherato di pinzilacchere televisive, di bandane in ville cafone, di dittatori russi che venivano dall’amico in Sardegna con un incrociatore militare, di dittatori libici che venivano dall’amico a Roma con le loro amazzoni, di partouzes con minorenni – se tutto questo è sembrato uno spettacolo di circo o un brutto sogno, in realtà è successo davvero: è stata un’epoca truce e funebre che ha scavato gallerie oscure nelle coscienze degli italiani. Ma il romanzo di Paolo Di Paolo non è tanto un romanzo sul regime di Berlusconi, quanto un romanzo sulla fine di un regime, sulla malinconia che lascia nell’animo di chi l’ha vissuto, sulla penombra (o oscurità) che abbiamo attraversato, sul desolato paesaggio del day after.

‹‹L’aria era cambiata. Sulla nave da crociera, le luci erano rimaste accese. E attivi i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. Ma c’era come un senso di smarrimento. Un’ansia strana si sarebbe comunicata di passeggero in passeggero. L’equipaggio non era in grado di fornire alcuna indicazione. Le luci restavano accese, notte dopo notte. Ma i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar sembravano più tristi e cominciavano a svuotarsi. Le feste c’erano ancora, ma come svogliate. A muoversi – in modo scomposto e con le camicie sudate e le pance e i sorrisi un po’ ebeti – erano ormai quasi solo alcuni vecchi amici del Capo. I passeggeri, loro cominciavano ad annoiarsi›› (p. 137).

Ma il romanzo non è solo questo, ha anche una sua storia amaramente divertente che lo fa leggere con piacere, e che ovviamente non riassumo. E il cui filo conduttore è un fait divers, le disavventure di un insegnante di un liceo romano al primo anno di pensione, il povero professor Tramontana, che perde letteralmente la tramontana e risolve di vendicarsi dagli sberleffi subiti da un allievo che gliene ha fatte di tutti i colori investendolo con l’automobile. È un romanzo che potrebbe sembrare minimalista ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare di formazione ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare autoreferenziale e che poi non lo è. Il protagonista, il Tramontana figlio, per il quale scatta un’immediata simpatia, è una specie di Giovane Holden all’incontrario, sempre smanioso di essere amato, che vorrebbe dare ordine a un mondo che ordine non ha. C’è poi un’affollata solitudine, ci sono dei genitori ai quali sono state sottratte le categorie del mondo in cui vivevano prima e che ora vivono in una dimensione parallela, una sorta di “Stringa”. C’è un repertorio dello stupidario collettivo ormai inter-generazionale, perché il Nulla in cui tutti si trovano a vivere non è decifrabile da nessuno, e ognuno a suo modo lo vive alla Bouvard e Pécuchet, limitandosi a sillabarlo come se doppiassero la televisione. Il giovane Tramontana vorrebbe concludere i suoi studi universitari con una tesi in Storia moderna sul berlusconismo, ma il cattedratico nicchia e lo spedisce dall’Assistente. E l’Assistente (così chiamato in modo categoriale) a sua volta si tira indietro perché si è candidato nelle liste del Partito democratico e una tesi del genere gli pare controproducente per la sua carriera politica.

Ma in fondo non è questo il vero motivo della tesi mancata. La verità è che il berlusconismo è un “vuoto”, un buco nero, e sul vuoto non si può scrivere una tesi: esso non è interpretabile, sfugge all’esegesi. Dove eravate tutti (senza il punto interrogativo, come in Cosa cambia di Roberto Ferrucci) è la tesi sul vuoto di un ventennio che il figlio del professor Tramontana non è riuscito a scrivere per l’esame universitario. Ma che Paolo Di Paolo è riuscito a raccontare in un romanzo rendendolo significante e tangibile con il talento di un narratore di razza.

Dove eravate tutti, Feltrinelli 2011

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Antonio Tabucchi su “Dove eravate tutti”

Mentre sento che in Italia, paese dell’eterno ritorno, si è ricominciato a piangere sull’imminente morte del romanzo” che mezzo secolo fa costituì il tormentone della neo-avanguardia di allora, vedo con piacere che i giovani (e anche i meno giovani) scrittori italiani continuano a scrivere romanzi. O qualcosa che appartiene al genere che per convenzione definiamo “romanzo” e che naturalmente non ha niente a che vedere con la creatura di cui si piange la futura scomparsa, essendo costei defunta da tempo per cause naturali. Una modesta creatura il cui avvincente incipit (parlo per metafora) suonava all’incirca così: “La Marchesa uscì di casa alle cinque in punto”. Anche se il feuilleton di tipo ottocentesco basato sull’uscita della Marchesa continua ad occupare i banchi delle librerie e le sdraio degli stabilimenti balneari (ma questa è una legge dell’industria del consumo, che per fare un solo prodotto di qualità deve produrre almeno una tonnellata di scorie), coloro che oggi scrivono buona letteratura sanno che la Marchesa che uscì alle cinque non ha più fatto ritorno, ed è inutile stare ad aspettarla. Ed è curioso notare come nonostante lo stantio ambiente culturale italiano, o forse proprio in reazione ad esso, la giovane letteratura italiana (intendo della generazione dei trentenni e dei quarantenni) sia una delle più nuove e vivaci d’Europa; una letteratura che se l’avessero i francesi e gli inglesi riuscirebbero a imporla nel mondo con la forza di una esportabilità linguistica che noi non abbiamo. Qualche tempo fa l’italiano era almeno una lingua di cultura; ora, dopo la sistematica distruzione della cultura, non è più neppure questo. E altro che signore marchese che uscirono di casa alle cinque: qui si tratta di un paese intero che vent’anni fa s’imbarcò su una nave da crociera verso lidi ignoti, facendo perdere le proprie tracce ai radar dei “politologi” e degli “statistici” che ancora la cercano invano.
«Mi perdoni se entro nel campo personalissimo delle mie visioni, se non addirittura delle mie allucinazioni. Mi creda, mi è sembrato di averla davanti agli occhi: una nave da crociera. Il pensiero mi ha accompagnato fino a notte e non mi ha ancora lasciato: L’Italia, per vent’anni, è stata una nave da crociera. Non le pare? Con i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. La vacanza dev’essere cominciata con una cosa che, per età, non riesco a ricordare per memoria diretta. Ne hanno mandati in onda alcuni passaggi l’altra sera. Si chiamava Colpo grosso, lo trasmettevano su Italia7, gestione Fininvest».
Con questa citazione, che è a pagina 136, credo di aver toccato il cuore del romanzo di Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, appena uscito presso l’editore Feltrinelli. Paolo Di Paolo è un giovanissimo (nato nel 1983), ma ha già al suo attivo una produzione saggistica e narrativa insolitamente folta per la sua età. E se non posso definire questo romanzo un esordio, esso è certo un felice ingresso in una narrativa impegnativa e matura, anche in virtù del complesso disegno con cui è costruito, con una storia che fa da sinopia a un affresco composto di notizie di giornale, di fotografie, di lacerti di realtà politico-sociale, di mitemi attuali, di idioletti epocali, di ciò che costituisce non soltanto il sapore ma lo Zeitgeist dell’epoca nostra.
L’autore appartiene a quella generazione che dall’infanzia a oggi in Italia non ha conosciuto altro che il sistema tolemaico di quell’imprenditore brianzolo proveniente da un’associazione eversiva che la stampa italiana, con un anglicismo fuori luogo definisce “il premier”. E che ha come “seconders” (a questo punto ci sta bene) boss mafiosi, corruttori di giudici, sub-agenti dei servizi segreti, giornalisti al soldo, sicari, cardinali, magnaccia e cocainomani. Un tipetto che di quella nave da crociera, dove dapprima faceva l’intrattenitore, è divenuto il capitano.
«Saliti sulla nave da crociera, abbiamo preso il largo. Diretti dove? Era impossibile capirlo. Ma siamo rimasti a bordo per vent’anni. Le vacanze erano finite, veniva da piangere a tutti, come in una pubblicità. Però qualcuno deve aver detto che si poteva restare. Si poteva non scendere più. Lui avrebbe continuato a intrattenere, a sorridere, a cantare. Un giorno, quando sembrava che tutto sarebbe durato così per sempre, il Capo sarebbe sceso» (p.137).

Ecco per dove era partita la nave da crociera su cui si era imbarcata l’Italia: verso presunte “donne di sogno, banane e lamponi” che l’intrattenitore, Joker di un fumetto scadente, aveva promesso a tutti, ma proprio a tutti, firmando un “contratto” televisivo seduto a una scrivania di ciliegio di fronte a un presentatore che fingeva di essere il notaio. Il ventennio berlusconiano, mascherato di pinzilacchere televisive, di bandane in ville cafone, di dittatori russi che venivano dall’amico in Sardegna con un incrociatore militare, di dittatori libici che venivano dall’amico a Roma con le loro amazzoni, di partouzes con minorenni- se tutto questo è sembrato uno spettacolo di circo o un brutto sogno, in realtà è successo davvero: è stata un’epoca truce e funebre che ha scavato gallerie oscure nelle coscienze degli italiani. Ma il romanzo di Paolo Di Paolo non è tanto un romanzo sul regime di Berlusconi, quanto un romanzo sulla fine di un regime, sulla malinconia che lascia nell’animo di chi l’ha vissuto, sulla penombra (o oscurità) che abbiamo attraversato, sul desolato paesaggio del day after.

«L’aria era cambiata. Sulla nave da crociera le luci erano rimaste accese. E attivi i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. Ma c’era come un senso di smarrimento. Un’ansia strana si sarebbe comunicata di passeggero in passeggero. L’equipaggio non era in grado di fornire alcuna indicazione. Le luci restavano accese, notte dopo notte. Ma i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar sembravano più tristi e cominciavano a svuotarsi. Le feste c’erano ancora, ma come svogliate. A muoversi – in modo scomposto e con le camicie sudate e le pance e i sorrisi un po’ ebeti – erano ormai quasi solo alcuni vecchi amici del Capo. I passeggeri, loro cominciavano ad annoiarsi» (p. 137).

Ma il romanzo non è solo questo, ha anche una sua storia amaramente divertente che lo fa leggere con piacere, e che ovviamente non riassumo. E il cui filo conduttore è un fait divers, le disavventure di un insegnante di un liceo romano al primo anno di pensione, il povero professor Tramontana, che perde letteralmente la tramontana e risolve di vendicarsi dagli sberleffi subiti da un allievo che gliene ha fatte di tutti i colori investendolo con l’automobile. È un romanzo che potrebbe sembrare minimalista ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare di formazione ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare autoreferenziale e che poi non lo è. Il protagonista, il Tramontana figlio, per il quale scatta un’immediata simpatia,è una specie di Giovane Holden all’incontrario, sempre smanioso di essere amato, che vorrebbe dare ordine a un mondo che ordine non ha. C’è poi un’affollata solitudine, ci sono dei genitori ai quali sono state sottratte le categorie del mondo in cui vivevano prima e che ora vivono in una dimensione parallela, una sorta di “Stringa”. C’è un repertorio dello stupidario collettivo ormai intergenerazionale, perché il Nulla in cui tutti si trovano a vivere non è decifrabile da nessuno, e ognuno a suo modo lo vive alla Bouvard e Pécuchet, limitandosi a sillabarlo come se doppiassero la televisione. Il giovane Tramontana vorrebbe concludere i suoi studi universitari con una tesi in Storia moderna sul berlusconismo, ma il cattedratico nicchia e lo spedisce dall’Assistente. E l’Assistente (così chiamato in modo categoriale) a sua volta si tira indietro perché si è candidato nelle liste del Partito democratico e una tesi del genere gli pare controproducente per la sua carriera politica.
Ma in fondo non è questo il vero motivo della tesi mancata. La verità è che il berlusconismo è un “vuoto”, un buco nero, e sul vuoto non si può scrivere una tesi: esso non è interpretabile, sfugge all’esegesi. Dove eravate tutti (senza il punto interrogativo, come in Cosa cambia di Roberto Ferrucci) è la tesi sul vuoto di un ventennio che il figlio del professor Tramontana non è riuscito a scrivere per l’esame universitario. Ma che Paolo Di Paolo è riuscito a raccontare in un romanzo rendendolo significante e tangibile con il talento di un narratore di razza.

 

Quel che resta del paese di “Colpo grosso”, Antonio Tabucchi, la Repubblica.